Frasi Paesane (espressioni idiomatiche)
Con modo di dire o, più tecnicamente, locuzione o espressione idiomatica si indica generalmente un’espressione convenzionale, caratterizzata dall’abbinamento di un significante fisso (poco o niente affatto modificabile) a un significato non composizionale (Casadei 1994: 61; Casadei 1995a: 335; Cacciari & Glucksberg 1995: 43), cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti. Espressioni come essere al verde, essere in gamba, prendere un abbaglio, tirare le cuoia non significherebbero nulla se considerate solo come somma dei significati dei loro componenti (Cacciari & Glucksberg 1991: 217); se considerate in blocco, invece, rimandano a un significato traslato (detto anche figurato; ➔ definizione lessicale), risultato di procedimenti metaforici (come, ad es., quello di similitudine: vuotare il sacco → «rendere evidente ciò che contiene» → «svelare»; Jezek 2005: 183) e condiviso dall’intera comunità linguistica.
Ciò detto, una definizione precisa di modo di dire (e di espressione idiomatica) non è data né accettata in linguistica. Ciò accade sia perché la non composizionalità del significato ha indotto a lungo a considerare queste espressioni come anomalie ed eccezioni da trattare marginalmente (Katz 1972: 35), o tutt’al più da trasferire agli studi di ➔ etimologia, sia perché la supposta equivalenza tra idiomatico e non composizionale ha portato a estendere l’etichetta di modo di dire / espressione idiomatica «a ogni caso di non letterarietà o predicibilità semantica, dai singoli morfemi ai detti/proverbi, dalle parole complesse lessicalizzate agli atti linguistici indiretti». Si sono quindi raggruppati quasi indistintamente fenomeni eterogenei (quali: stereotipi, cliché, luoghi comuni, frasi fisse, espressioni binomiali e trinomiali, collocazioni, proverbi, sentence frames con valore coesivo e chunks lessicali tipici del linguaggio parlato; Lewis 1997: 257), a cui le espressioni idiomatiche sono state accostate per la loro fissità e/o convenzionalità (Casadei 1995a: 335-336). Il risultato di ciò è stato che spaventoso incidente, il gatto e la volpe, vita morte e miracoli, rivendicare un attentato, tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, a ben vedere, in primo luogo, per favore, in bocca al lupo, ecc., sono stati spesso considerati, lato sensu, tutti esempi di espressioni idiomatiche.
Federico Faloppa
ENCICLOPEDIA TRECCANI
A
A babbo morto
L’espressione avverbiale “a babbo morto” trae origine da una particolare forma di prestito praticata anticamente dagli usurai nei confronti di giovani provenienti da famiglie facoltose. Questi giovani, trovandosi in disastrose condizioni economiche, avrebbero restituito la somma di denaro ricevuta solamente dopo la morte del padre, cioè dopo la riscossione dell’eredità familiare.
Il detto, come immediatamente ci suggerisce la parola “babbo”, nasce in Toscana, dove è ancora oggi molto diffuso. In questo contesto regionale, esso si allontana dal significato originario e si evolve in tre accezioni particolari.
Nella prima accezione, più legata al senso iniziale, rimanda all’idea di indolenza, di svogliatezza (es. “Che fai lì a babbo morto?”). Questa frase si dice alle persone che non hanno voglia di fare nulla. Il tempo che gli usurai dovevano aspettare per riscuotere i soldi prestati è paragonato alla svogliatezza di queste persone nel fare le cose. Quest’uso è il più attestato fra i toscani.
La seconda accezione si riferisce a quelle persone che agiscono “senza informarsi, a caso” (es. “Ma che vuoi, è andato lì a babbo morto, non sapeva nulla”).
La terza, anch’essa comune in Toscana, si riferisce a un gesto o a un comportamento impulsivo, senza riflessione.
Tutte queste sfumature dimostrano che ci troviamo di fronte a una locuzione molto radicata nella terra d’origine e quindi sentita come naturale dai parlanti toscani.
A fa così e un si ripigliano neanche pe l’ostie de panforti (E un ci bastano neanche pe l’ostia de panforti)
Questa espressione viene utilizzata spesso nel contesto lavorativo per indicare che la decisione di procedere in un determinato modo non produrrà risultati positivi. In altre parole, gli sforzi impiegati non saranno sufficienti nemmeno per ottenere qualcosa di poco valore, come le ostie utilizzate come base per produrre i panforti, che hanno un costo irrisorio. In sintesi, l’idea è che l’investimento in questione non porterà alcun beneficio, ma comporterà solo una perdita di denaro.
A Lucca ti rieddi
Il detto toscano “A Lucca ti rieddi” è un’espressione ironica e colorita utilizzata nella cultura popolare per comunicare diverse situazioni.
Innanzitutto, viene impiegato quando si presume di non veder più una persona o di non aver più indietro soldi attesi; anche rivolto a persona che non si voglia più rivedere o a chi fa una domanda alla quale non si vuol rispondere. Può anche indicare il rifiuto di una proposta considerata svantaggiosa o l’allontanamento da situazioni indesiderate. Si presume inoltre che possa derivare dalla collocazione geografica di Lucca, considerata in passato una città lontana e difficile da raggiungere, implicando così che se qualcuno vi si recava, sarebbe stato difficile rivederlo. L’origine precisa del detto è incerta, ma alcune ipotesi suggeriscono una connessione con la storia della Lucchesia come luogo di prigionia in certi periodi storici, implicando che se qualcuno veniva mandato in prigione a Lucca, non si sarebbe più riveduto. Un’altra ipotesi sull’origine del detto risale a una storia raccontata dal poligrafo fiorentino Serdonati e dal lucchese Tommaso Buono nel Teatro de’ Proverbj. Narra di un gentiluomo lucchese che, dopo aver invitato un gentiluomo pisano a pranzo a casa sua a Lucca, successivamente si recò a Pisa dove parvegli convenvole salutare il suddetto pisano. Tuttavia, quando bussò alla porta del pisano, questi non lo riconobbe oppure fece finta. Di fronte a tale situazione, il lucchese rispose con l’espressione “A Lucca ti védi, a Pisa ti conobbi”, indicando ironicamente che non aveva più interesse nel rivedere o riconoscere il pisano, dando così origine al detto. Inoltre, potrebbe anche essere un gioco di parole con il verbo “rivedersi”, che in italiano può significare sia “incontrarsi di nuovo” che “morire”, suggerendo che andare a Lucca equivale a un addio definitivo, quasi come un’eufemistica predizione di morte. L’uso di questa espressione è diffuso nei contesti toscani e viene impiegato per comunicare la perdita irrimediabile di qualcuno o di qualcosa, ad esempio, si potrebbe dire: “Marco è partito per l’Australia, a Lucca ti rieddi!”, per indicare che Marco è destinato a restare lontano per sempre. Oppure, in un contesto più materiale, si potrebbe dire: “Ho perso il mio telefono, a Lucca ti rieddi!”, per sottolineare la perdita definitiva dell’oggetto.
A culo tòrto (A buo tòrto)
Con la coda tra le gambe, indispettito: “Gliò ripetuto che un la de(v)e lascia’ la macchina ni’ passo! Oh, e gliè andato via a culo tòrto (a buo tòrto)!
(da Giacomo Bigagli)
A i’ poero dagli
Quando il destino si accanisce con chi ha già molti motivi per lamentarsi.
A ora beùta
Tardi, quando sono andati via quasi tutti: “A ora beùta si piglia la macchina e si fa una passata a i’ piazzale Michelangelo!”
(da Giacomo Bigagli)
A sapecci icci
Il significato sarebbe quindi qualcosa come “sarebbe bello, importante o interessante saper andare in quel luogo, ma potrebbe richiedere o esortare in modo implicito qualche aiuto o guida”. È un modo speranzoso e riflessivo di esprimere il desiderio di essere in grado di raggiungere un determinato posto con un po’ di assistenza e di fortuna.
(da Ciccio Toccafondi)
A strappa radicchio
Il detto “A strappa’ radicchio” viene utilizzato in Toscana per descrivere una situazione in cui si deve compiere un’azione a vantaggio di qualcuno, ma se questa azione venisse eseguita in modo errato, potrebbe avere conseguenze negative per chi la compie. In altre parole, il soggetto che dovrebbe trarre beneficio dall’azione potrebbe arrabbiarsi e mettere in atto delle ritorsioni contro i malfattori. Questo detto implica che, in caso di errore, si verrebbe messi in una posizione vulnerabile e umiliante, come “a novanta gradi”, e simbolicamente sodomizzati. Si dice “a strappa’ radicchio” perché la posizione che viene assunta per raccogliere il radicchio è appunto una posizione prona al terreno, simile a “a novanta gradi”
In genere si dice: “Stiamo attenti, ragazzi, altrimenti ci mettono a strappa’ radicchio” per rafforzare il concetto dell’importanza della cosa che stiamo facendo e delle tragiche conseguenze che un errore potrebbe comportare.
A te e un ti vole neanche i “Chiappino”
Questo detto è utilizzato in modo dispregiativo per indicare che una persona non ha alcun valore ne suscita interesse per gli altri. L’insulto consiste nel suggerire che persino il “Chiappino”, nome comunemente usato a Prato per indicare l’operatore specializzato nel recupero di materiali vecchi, come ferraccio, cartone, legna, plastica, mobili usati, ecc…, non avrebbe interesse nel prendere questa persona. Nello specifico il “Chiappino” si occupava di raccogliere oggetti di scarsa o nessuna valenza, e quindi affermare che neanche il “Chiappino” avrebbe interesse implica che la persona in questione è considerata priva di qualsiasi valore.
A tutta canna
Al massimo della velocità: “Gli è passato pe’ Aiolo a tutta canna!”
(da Giacomo Bigagli)
Acqua alle ròte e vino ai barrocciai
Quasi un inno che veniva ripetuto dai barrocciai pratesi quando pioveva “come Dio la mandava”. Serviva a caricarsi dovendo subire le conseguenze “molli” di una giornata particolarmente pesante. (per la pioggia)
(da Giacomo Bigagli)
Alla fine, gl’hanno fatto sdegnare anche i maiale
Questo detto esprime la situazione in cui qualcuno è stato così irritato o disgustato da un comportamento o da una situazione particolarmente ripugnante che persino i maiali, noti per la loro scarsa selettività alimentare e la disposizione a mangiare praticamente qualsiasi cosa, sarebbero stati sdegnati o disgustati. In altre parole, l’espressione indica un livello estremo di offesa o disgusto, sottolineando che il soggetto in questione ha superato persino i limiti di tolleranza degli animali che sono generalmente considerati poco esigenti in termini di cibo o condizioni.
Allora io un mi condusco a vedere un bisnipotino
Tipico modo di esprimersi in dialetto, in cui una nonna, rivolgendosi al nipote, si rassegna in modo affettuoso ma esprime anche la speranza di diventare bisnonna. In sostanza, la nonna sta accettando la situazione attuale, ma al contempo auspica che il nipote diventi padre, permettendole così di vedere la nascita di un bisnipote.
Andare i’ sangue a i’ capo
Espressione che significa: “subire una paura improvvisa”. “Quand’ho visto che brandiva un coltello m’è andato i’ sangue a i’ capo!”
Ma anche nel senso di perdere il lume della ragione.
(da Giacomo Bigagli)
Andare in ciampanelle o cianfanelle
Questo modo di dire pratese è un’espressione colorita utilizzata per descrivere una persona che perde la lucidità mentale, vaneggia o dice cose fuori luogo. L’origine del termine è incerta, ma vi sono diverse interpretazioni che ne arricchiscono il significato.
Secondo alcuni studiosi, il termine potrebbe derivare dall’antico francese champenele (campanella), evocando il suono ripetitivo e disturbante delle campane che “rintronano” chi le ascolta, simile all’espressione provenzale moderna “estre dins li campanello” (essere rintronato dal suono delle campane).
Altri, invece, ipotizzano che l’evoluzione del significato sia stata influenzata dal verbo “(in)ciampare”, associandolo all’idea di inciampare o perdere l’equilibrio, anche mentale.
Il detto viene utilizzato in diverse forme, come “dare in ciampanelle” o “andare in ciampanelle”, per indicare comportamenti incoerenti, spropositati o segnali di confusione mentale, che possono essere dovuti a stanchezza, ubriachezza o anche semplicemente a un momento di smarrimento. Alcuni esempi di utilizzo pratico includono frasi come:
- “L’ha dato ’n ciampanelle” (Ha perso la testa).
- “Per me tu da’ in ciampanèlle stasera!” (Mi sembra che tu stia vaneggiando stasera!).
L’espressione, tipica del dialetto pratese, conserva tutto il fascino di un linguaggio popolare che sa descrivere con ironia e immediatezza situazioni quotidiane, confermando la ricchezza culturale delle tradizioni orali della città.
Alla fine, e parte la bambola
L’espressione dialettale pratese “Alla fine, e parte la bambola!” è utilizzata per esprimere preoccupazione riguardo a ciò che potrebbe accadere in determinate situazioni. Il significato della frase può variare a seconda del contesto. Ad esempio, durante una discussione accesa, potrebbe indicare la possibilità che la situazione si intensifichi a tal punto da sfociare in azioni fisiche o violente. In ambito lavorativo, potrebbe suggerire la prospettiva di un possibile fallimento se la situazione economica critica persiste. In generale, l’uso di questa frase indica l’anticipazione di eventi gravi che potrebbero scatenare forti reazioni emotive da parte di chi è coinvolto.
Avere i’ fò(c)o a i’ culo
Avere una dannata fretta: “Aspetta un secondo! Piglia i’ caffè! Ma che hai i’ fò(c)o a i’ culo?”
(da Giacomo Bigagli)
Avere palle e polvere
Il detto popolare toscano “avere palle e polvere” si riferisce a chi è pronto all’azione, determinato e combattivo, proprio come un soldato che ha sia le palle di cannone (cioè la volontà, il coraggio) che la polvere da sparo (cioè i mezzi e la prontezza per agire).
In senso figurato, si usa per indicare una persona che non solo ha il coraggio, ma è anche preparata e ben equipaggiata per affrontare una sfida.
Un modo più colorito e rustico per dire che non basta il fegato, ma servono anche le risorse e la determinazione concreta per passare all’azione.
Il detto affonda le sue radici nella tradizione bellica e contadina toscana. Nella guerra, come nella vita, non serve solo il coraggio: servono anche strumenti adeguati per ottenere risultati. È un’espressione che spesso si usa per indicare una prontezza completa, una determinazione concreta, non solo verbale.
In Toscana viene pronunciato con tono deciso, talvolta ironico, e può essere usato anche per stimolare qualcuno a darsi una mossa.
Avere più anni del paleo
Essere molto vecchio, antico. Il paleo è una comune graminacea che cresce ovunque.
B
Bada c’è i mi amio! Accidenta a quello che ti legò i bellio
Il detto toscano “Bada c’è i mi amio! Accidenta a quello che ti legò i bellio” è solitamente riferito a una persona un po’ strana o che ci fa arrabbiare,
spesso rivolto ai propri figli. L’espressione esprime un misto di esasperazione e affetto verso qualcuno che sta facendo qualcosa di fastidioso o stravagante.
“Bada c’è i mi amio!” è un’esclamazione di sorpresa o disappunto nei confronti di qualcuno. La frase “Accidenta a quello che ti legò i bellio” è un’imprecazione colorita che augura un piccolo danno a chi ha contribuito alla nascita o all’educazione del “mi amio” o del figlio (spesso riferendosi scherzosamente al padre).
In sintesi, questo detto è una colorita espressione toscana che, con un misto di irritazione e affetto, si usa per rimproverare bonariamente qualcuno,
di solito un figlio, per il suo comportamento bizzarro o irritante.
Bona Ugo
Saluto frettoloso e in negativo per staccarsi da un interlocutore antipatico. Anche per esprimere perplessità sulle affermazioni dell’interlocutore.
Bosco a baccano
Il detto toscano “bosco a baccano” descrive una situazione di grande disordine, caos e disorganizzazione. L’espressione combina “bosco”, evocando un ambiente fitto e intricato, con “baccano”, termine che indica un forte rumore o frastuono. L’origine di “baccano” è probabilmente legata al latino “bacchanal”, riferito alle feste in onore del dio Bacco, caratterizzate da rumori e comportamenti sfrenati. Pertanto, “bosco a baccano” suggerisce un luogo o una situazione caotica, dove regnano confusione e disordine. Questo modo di dire è tipico della tradizione toscana e riflette l’uso di immagini vivide per descrivere condizioni tumultuose.
Buonanotte Suonatori
Il detto “Buonanotte suonatori” è un’espressione colloquiale toscana usata per indicare che una situazione è diventata irrisolvibile o che non ha più senso proseguire
in una discussione, un’attività o un tentativo. Spesso, viene impiegata quando si desidera porre fine a qualcosa che è ormai diventato inutile o senza speranza di successo. Es. “Ragazzi, abbiamo provato di tutto, ma la macchina non parte; chiamiamo il carro attrezzi e buonanotte suonatori”.
Un tempo, era comune nei locali avere orchestre e musicisti fino alla chiusura, anche quando i clienti erano pochi. Quando la musica finiva e persino i suonatori potevano andare a dormire, significava che la festa o la serata erano definitivamente concluse e che non c’era più alcun motivo per restare.
In sintesi, “Buonanotte suonatori” è usato per indicare la chiusura definitiva di una discussione o di un’attività, riconoscendo che ogni ulteriore sforzo sarebbe vano. È un modo per accettare che una situazione è giunta alla fine e che non resta altro da fare se non arrendersi e andare avanti.
Buttare giù argine e macchia
Distruggere tutto senza distinguere il buono dal cattivo. “E un n’ era contento di quel capannotto! Gliè andato là e ha buttato giù argine e macchia”.
(da Giacomo Bigagli)
C
Cencio dice male di straccio
Per dire che chi critica dovrebbe prima guardare se stesso.
C’è che ire
Ce n’è del cammino da fare
C’è da patì tanto prima di morire
L’espressione viene utilizzata per descrivere la sensazione di essere chiamati o costretti ad agire, interrompendo momenti di calma e serenità. Questa situazione implica l’obbligo di compiere azioni per senso di responsabilità o dovere, anche se l’individuo preferirebbe evitare tali impegni. L’uso di questa frase riflette il sentimento di trovarsi costantemente coinvolto in situazioni che richiedono azione, anziché godere di momenti di tranquillità e ozio. La frase si ispira, in modo ironico, alla storpiatura della celebre frase: “Non c’è pace tra gli ulivi”.
C’entra quant’i’ c**o con le quarant’ore (I che centra i c**o con le 40 ore)
Quando si risponde a un interlocutore usando argomenti non pertinenti. Il detto “I che c’entra i c**o con le 40 ore” è tipico del vernacolo toscano, in particolare della zona di Prato e dintorni. Come molti detti popolari, utilizza un linguaggio colorito per esprimere un concetto in modo vivace e immediato. Questo vecchio adagio trae origine da un episodio avvenuto in chiesa, legato alla spiegazione del concetto delle Quarantore da parte di un prete. Infatti, nel cattolicesimo, le Quarantore, o Quarant’ore, sono una pratica devozionale consistente nell’adorazione, per quaranta ore continue, del Santissimo Sacramento, visibile nell’ostensorio contenente l’Ostia consacrata, solennemente esposto sull’altare. Il nome si richiama al periodo di tempo trascorso fra la morte (Venerdì santo) e la risurrezione (domenica di Pasqua) di Gesù.
Durante questa spiegazione, sembra che il prete, con un gesto inappropriato, toccò furbescamente il sedere di una ragazza. La ragazza, indignata, si girò verso il prete e disse: “Cosa c’entra il c**o con le 40 ore?” Da questo episodio nacque il detto, che viene utilizzato per sottolineare l’incongruenza o la mancanza di relazione tra due concetti o situazioni. Il detto mette in evidenza come alcune azioni o affermazioni possano essere completamente fuori contesto rispetto al discorso principale, proprio come il gesto inappropriato del prete durante la spiegazione delle Quarantore. In sintesi, il detto è utilizzato per criticare associazioni illogiche o irrazionali, sottolineando l’assurdità della relazione proposta.
Che tirchio, un darebbe via i p****o di tre giorni
La frase “Che tirchio, un darebbe via i p****o di tre giorni” viene utilizzata per descrivere persone particolarmente avarie e poco generose, che mostrano una marcata attitudine al risparmio e evitano di condividere o spendere denaro. L’espressione sottolinea la loro tendenza a conservare oggetti anche se sono completamente rovinati, simboleggiati nella frase dall’urina vecchia di tre giorni, che rappresenta qualcosa di privo di valore e maleodorante. In sostanza, la frase dipinge individui che sono estremamente parsimoniosi e restii a condividere o donare anche le cose più insignificanti.
Chi mangia i fico il primo di novembre non gli viene la gocciola a i naso
Il detto popolare suggerisce che mangiare fichi il primo novembre può aiutare a prevenire il raffreddore e ridurre il rischio di ammalarsi. In altre parole, si ritiene che questa pratica contribuisca a evitare il fastidioso fenomeno della gocciola al naso associato al raffreddore. Questa tradizione popolare potrebbe riflettersi sulla convinzione che il consumo di fichi in questa data specifica possa avere benefici per la salute, proteggendo così dalle malattie stagionali.
Che gli conoscerò e mi polli
Il detto “Che gli conoscerò e mi’ polli” nasce da una pratica medievale in cui le famiglie tenevano i pollai aperti, permettendo ai galli e alle galline di girare liberamente. Per evitare che questi animali si mescolassero con quelli di altre famiglie, ogni famiglia li contrassegnava con un piccolo nastro colorato. In questo modo, potevano riconoscere e tenere d’occhio i propri polli, garantendo che non si allontanassero troppo e che fossero sempre sotto controllo.
Oggi, l’espressione “Che gli conoscerò e mi’ polli” è utilizzata per indicare che siamo perfettamente in grado di prevedere i comportamenti, le scelte e le decisioni delle persone che conosciamo. Più in generale, questo detto sottolinea la capacità di prevedere le tendenze e le reazioni delle persone in diverse situazioni, basandosi sull’esperienza e sulla conoscenza delle caratteristiche umane comuni.
In sintesi, questo detto ci ricorda che, proprio come i nostri antenati riuscivano a tenere sotto controllo i loro polli, anche noi siamo in grado di anticipare e comprendere le azioni e le decisioni delle persone, grazie alla nostra familiarità con i loro comportamenti e abitudini.
Che son finite le feste a Roma?
La frase “Che son finite le feste a Roma?” è un modo di dire colloquiale utilizzato per scherzosamente rimarcare il ritorno alla normalità dopo un periodo di festività o di svago. L’origine di questa espressione si fa risalire al periodo fascista in Italia, quando il 21 aprile veniva celebrato il “Natale di Roma”, una festa istituita per commemorare la fondazione della città. Durante questa festività, molte persone si recavano a Roma per partecipare alle celebrazioni, trascorrendo qualche giorno di svago nella capitale. Al loro ritorno nei loro paesi di origine, gli amici e i conoscenti, ironicamente, chiedevano loro se le feste a Roma erano finite, sottolineando così il ritorno alla normalità e al lavoro quotidiano dopo il periodo di festeggiamenti. Natale di Roma
Co lo sputo e la pazienza l’elefante lo mise in c**o alla farfalla
La frase è sempre usata in senso metaforico. Significa che con la pazienza e gli strumenti adatti si può fare una cosa che sembrerebbe impossibile.
Come tu vo fare con questa banda di sarta fossi
In passato, il termine “sarta fossi” veniva utilizzato per descrivere dei ladruncoli che non esitavano a saltare i fossi che dividevano gli appezzamenti di terra dei vari contadini, utilizzando tali passaggi per rubare quanto possibile. Pertanto, l’avvertimento di fare attenzione con individui che possono sembrare dei “sarta fossi” implica che potrebbero essere poco affidabili o propensi a comportamenti disonesti come il furto o l’inganno. In altre parole, è un’espressione che suggerisce di prestare particolare attenzione o di essere prudenti quando si interagisce con un gruppo di individui o una singola persona che mostra atteggiamenti ed espressioni poco convincenti.
D
Dare di barta
Locuzione mediata da ribaltare o capovolgersi: uscire di senno, il contrario di essere nella norma.
Darebbe noia alla noia
Il detto paesano “darebbe noia alla noia” è un’espressione utilizzata a Prato per descrivere una persona abbastanza fastidiosa. Infatti a Prato, la parola “noia” viene spesso utilizzata come sinonimo di fastidio, tanto che a volte si sente dire: “non darmi noia” al posto di “non darmi fastidio”. Quando si dice che qualcuno “darebbe noia alla noia”, si vuole enfatizzare quanto quella persona sia irritante al punto da infastidire persino il concetto stesso di fastidio. Questo detto, spesso impiegato in contesti informali e scherzosi, sottolinea l’insopportabile insistenza o il carattere molesto di certi comportamenti, che possono essere percepiti come un fastidio scherzoso ma al limite del pesante. In sintesi, questa espressione rappresenta un modo ironico e vivace di lamentarsi della capacità unica di alcune persone di essere talmente fastidiose da infastidire anche ciò che per definizione è già fastidioso.
Destati, tu hai da aire in centro a Prato a fare un’imbaciata a i Sindaco
Questo detto popolare in dialetto pratese è un’espressione vivace e ricca di tradizione, usata per richiamare qualcuno che si trova a letto, immerso nel riposo, e che deve svegliarsi immediatamente per affrontare un’urgenza.
“Destati” significa “svegliati”, e nel contesto del detto evoca l’immagine di qualcuno che entra di corsa in camera, scuotendo il dormiente per richiamarlo all’azione; mentre l’urgenza è sottolineata da “tu hai da aire” (devi andare), che evidenzia la necessità di muoversi subito per svolgere un compito. L’espressione si conclude con “a fare un imbaciata” (portare un’ambasciata), che si riferisce all’esigenza di consegnare un messaggio importante o svolgere un incarico delicato. La scelta di citare “il Sindaco” e il centro di Prato conferisce al detto un’aria ufficiale e concreta, evocando un contesto urbano e una certa solennità legata al compito da svolgere.
Questo modo di dire, con la sua ironia e praticità, riflette lo spirito operoso e diretto della cultura pratese, tramandando un’immagine vivace della vita di un tempo.
Di buzzo bono
Di buona lena, con impegno: “Finalmente s’ è messo a fare i compiti di buzzo buono!”
(da Giacomo Bigagli)
Di che c’è un manca nulla
Questa espressione viene utilizzata in modo ironico e scherzoso quando qualcuno chiede se qualcosa è presente o disponibile, anche se in realtà è ovvio che lo sia. Chi risponde con questa frase vuole in un certo senso rassicurare la persona che ha fatto la domanda, ma allo stesso tempo prende in giro la situazione rispondendo con una verità scontata. È come se volesse dire “È evidente che non manca nulla di ciò che è già presente”, ma lo fa in modo scherzoso e giocoso, evitando di rispondere seriamente alla domanda posta.
Di solito la notte è più nera quando manca la luna, ma alla fine viene sempre il giorno
Questa celebre frase, frutto della saggezza popolare, riflette una verità universale sulla natura ciclica della vita e sul concetto di speranza e ottimismo. In particolare, suggerisce che anche durante i periodi più bui e difficili, simboleggiati dall’oscurità della notte quando manca la luna, bisogna mantenere la fiducia e l’ottimismo poiché alla fine, inevitabilmente, arriverà la luce del giorno. La frase sottolinea che i momenti di oscurità e difficoltà sono temporanei e che, con il passare del tempo, arriverà sempre una nuova alba, portando con sé la speranza e la possibilità di un nuovo inizio. È un invito a perseverare e a mantenere la fiducia anche durante i momenti più difficili, sapendo che alla fine ci sarà sempre la luce e la rinascita.
Dove si manduca, Dio ci conduca (Che il Signore ci conduca dove si manduca)
Significa : Dio ci conduca, dove si mangia. In senso lato indica l’auspicio a poter essere nei luoghi dove si mangia tanto, si gustano piatti succulenti, insomma si sta bene e ci si diverte.
E
E dorme come una panca
È un detto colloquiale toscano utilizzato per descrivere una persona che sembra poco sveglia o attenta rispetto a ciò che accade intorno a lei. L’uso della parola “dormire” in questo contesto non si riferisce letteralmente al sonno fisico, ma piuttosto al concetto di essere poco svegli cerebralmente e immobili come una panca. Questo detto suggerisce che la persona in questione è così poco reattiva o consapevole da sembrare quasi inanimata, simile a un oggetto inanimato come una panca. In sintesi, l’espressione viene utilizzata per descrivere una mancanza di vivacità o reattività da parte di una persona.
E fa come i ciuo di pentolaio! E si fermava a tutte le cantonate
Questo detto descrive una persona che imita il comportamento dei pentolai del passato. Questi artigiani, insieme ai loro asini carichi di attrezzi per riparare le pentole e pentole già riparate, si fermavano nei vari paesi ad ogni gruppo di case, chiamati “cantonate”, per offrire i loro servizi. La persona descritta nel detto si ferma ad ogni angolo senza avere motivi professionali specifici, ma semplicemente per il piacere di conversare, spettegolare e rimanere aggiornata sulle novità della vita del paese. Questo comportamento viene pertanto paragonato a quello del “ciuo” del pentolaio, ma in senso dispregiativo, poiché mentre il pentolaio si fermava ad ogni cantonata per lavoro, questa persona lo fa per curiosità e per spettegolare sulle vicende del paese, un atteggiamento spesso malvisto poiché implica un eccessivo interesse per gli affari altrui.
E fò come i pappagallo di Gambine: “E me la do!”
Questo detto si riferisce a fatti, personaggi e animali realmente esistiti. In particolare, il personaggio di Galciana soprannominato “Gambine” possedeva un pappagallo in gabbia che aveva imparato a ripetere alcune frasi tipiche del dialetto galcianese. Tra queste, vi era la frase “E me la do!”, la cui traduzione in italiano indica che una persona, di fronte a una situazione scomoda, pericolosa o poco gradita, decide di allontanarsi rapidamente per evitarne ulteriori complicazioni. Quando si verificava tale situazione, le persone del paese usavano dire “E me la do!” per indicare che era giunto il momento di lasciare la scena. Un giorno, il pappagallo di Gambine sparì misteriosamente, e la gente del paese, scherzosamente, ipotizzò che, dopo aver ripetuto tante volte la frase “E me la do!”, il pappagallo fosse davvero partito. Da qui nacque il detto paesano, che rievoca questo fatto buffo realmente accaduto, facendo riferimento al pappagallo di Gambine. Quindi, quando si dice “E fò come i pappagallo di Gambine: ‘E me la do!'”, si intende esprimere il desiderio di allontanarsi da una situazione scomoda o spiacevole, proprio come si ipotizza che il pappagallo avesse potuto fare.
E gl’è un affare di pe ridere
Il detto “e gl’è un affare di pe ridere” deriva dal vernacolo toscano e viene utilizzato per descrivere una situazione o un oggetto estremamente rilevante, notevole o significativo. L’espressione “di pe ridere” è un rafforzativo che aggiunge un senso di grandezza o importanza a ciò che precede. Infatti il termine “di pe ridere” si usa per enfatizzare un sostantivo, indicando che qualcosa è “grandissimo”, “molto esteso” o “tantissimo”. Può essere applicato anche a persone per descrivere una loro qualità in modo enfatico. “E gl’è un affare di pe ridere” è quindi un modo di dire pratese che esprime un’affermazione in maniera fortemente enfatica, suggerendo che l’affare o la situazione in questione è di una portata notevole, degna di grande attenzione o importanza.
Alcuni esempi dal vernacolo:
Ho fatto una bischerata di pe ridere a’ tempi de’ tempi!
– Traduzione: Ho fatto una sciocchezza enorme molto tempo fa!
Tu cià una piazza di pe ridere!
– Traduzione: Hai una piazza enorme! (piazza usato come sinonimo di una calvizie estesa)
E pare un omino dell’aceto
Il detto paesano “E pare un omino dell’aceto” viene comunemente utilizzato per descrivere una persona che presenta caratteristiche fisiche poco attraenti o poco prestanti, simili a quelle degli “omini” che un tempo praticavano il mestiere della vendita dell’aceto, noti come “omini dell’aceto”. In passato, l’aceto era un prodotto molto importante per la conservazione degli alimenti e per la pulizia. Non esistevano ancora i frigoriferi e l’aceto era uno dei pochi modi per evitare che il cibo si decomponesse. Inoltre, l’aceto era usato per disinfettare le superfici e per lavare i vestiti. Questi individui erano soliti attraversare i paesi con un carretto sgangherato”, spesso trainato da un somaro, per vendere l’aceto alle famiglie locali. Pertanto, l’espressione viene impiegata in senso dispregiativo per indicare l’aspetto goffo o poco gradevole di qualcuno, richiamando l’immagine degli antichi venditori ambulanti di aceto.
E son stanco come un somaro
Il detto paesano “E son stanco come un somaro” viene utilizzato per esprimere un grande senso di stanchezza o affaticamento. Fa riferimento al fatto che i somari, animali noti per la loro resistenza e capacità di trasportare pesi, possono tuttavia diventare estremamente stanchi quando sono sottoposti a un lavoro intenso o prolungato. Pertanto, l’espressione viene impiegata per comparare la propria stanchezza a quella di un somaro esausto, evidenziando un livello elevato di affaticamento. Questo detto viene utilizzato in situazioni in cui una persona si sente particolarmente stanca e esausta, magari dopo un’intensa giornata di lavoro o un periodo di stress prolungato.
E sto per uno!
Questo detto paesano ha origine dal mondo del gioco della tombola, in cui i giocatori, per realizzare la cinquina o la tombola stessa, hanno bisogno di un solo numero mancante. Durante il gioco, se a qualcuno viene chiesto come sta, se si trova in questa situazione, risponde dicendo “E sto per uno”, indicando che è vicino a completare la sua combinazione vincente. Tuttavia, questo concetto è stato portato fuori dal contesto originale e viene utilizzato in un contesto diverso. Infatti, il detto viene anche impiegato per descrivere una situazione in cui una persona si sta arrabbiando o perdendo la pazienza a causa di qualcosa di poco gradito o di comportamenti inappropriati da parte di altri. Quando la persona percepisce di essere vicina al suo limite di sopportazione, può esprimere la frase “E sto per uno”, avvertendo gli altri che il suo livello di tolleranza si sta esaurendo e che ulteriori provocazioni potrebbero portare a reazioni negative o a conseguenze indesiderate, analogamente al concetto del numero mancante per completare la cinquina o la tombola.
Eccoci a i’ conquibusse
(Cum quibus nummis – con quali denari). Eccoci al nocciolo della questione.
E chi un le può le lasci ire
Accompagna a commento una valutazione economica eccessiva. “Quanto costa codesta maglia?” “Mille lire”, “Sie, e chi un le po’ le lasci ire”.
E un c’è sugo disse quello che mangiava la pasta a burro
Il detto viene utilizzato in senso polemico per esprimere rammarico, delusione e frustrazione quando si è costretti a compiere un’azione pensando unicamente al risultato economico, trascurando qualsiasi virtuosismo tecnico o artistico legato all’attività in corso. Con la frase “E un c’è sugo”, si intende il fatto di dover affrontare l’azione in modo sbrigativo e rozzo, senza introdurre alcun virtuosismo, paragonando il “sugo” ai dettagli tecnici e artistici che arricchirebbero l’azione. L’ultima frase, “disse quello che mangiava la pasta al burro”, fa chiaro riferimento al mondo culinario, sottolineando la differenza tra mangiare una pasta con un sugo prelibato e mangiare una semplice pasta al burro. Questo confronto metaforico illustra che compiere un’attività senza virtuosismi tecnici o artistici è paragonabile a mangiare una pasta al burro quando potrebbe essere preparata una squisita pasta con un sugo.
E ti promettono Roma e Toma
L’espressione deriva dall’antico detto latino “promittere Romam et omnia” (“promettere Roma e tutto il resto” o “promettere mari e monti”). Nel corso del tempo, l’uso distorto popolare ha modificato la pronuncia della parola latina “omnia” in “Toma”, che, nella realtà, è un formaggio tipico piemontese. Quindi, questa espressione viene utilizzata per indicare una promessa esagerata o poco realistica. Prendere Roma per toma
Essere cotto come un fegatello
Ha un doppio significato. Cotto come innamorato perso; cotto come stanchissimo, esausto.
Essere più di là che di qua
Essere in fin di vita: “Poerino, gliè più di là che di qua! Unn’ arrìa a domani!
(da Giacomo Bigagli)
È arrivato Fra Ca**o da Velletri (Fra Cassio da Velletri)
F
Fare ai cozzi con i muriccioli
Esempio di testardaggine portata all’estremo e senza frutto. (“E’ inutile che tu cerchi di convincerla, è come fare ai cozzi con i muriccioli”)
Fare come i’ Nardi che di presto fece tardi
Monito a far presto per chi si attarda o cincischia.
Fare il chiappo
Segnala un errore, un comportamento sbagliato, un passo falso. “Che hai comprato l’azioni della banca? E tu l’hai fatto i’ chiappo: gli hanno detto che le un valgan più nulla”.
Figlioli? Fignoli!
Espressione usata per sottolineare che i figli creano spesso problemi (e giocata ovviamente sull’assonanza tra i due termini). Così, ad ogni marachella o difficoltà provocata dalla prole, ecco che scatta l’amareggiata constatazione: Meglio avere dei fignoli, cioè dei dolorosi foruncoli, che dei figlioli.
G
Galcianesi e Gamberi
Il detto popolare “Galcianesi e Gamberi” è una tipica espressione tradizionale legata agli abitanti di Galciana, frazione del Comune di Prato, in Toscana. Come molti proverbi toscani, utilizza una simbologia animale per creare un ritratto colorito e ironico di una comunità locale, spesso con intento scherzoso e rappresentativo.
L’associazione degli abitanti di Galciana ai gamberi ha probabilmente origine dalla caratteristica più nota di questi animali: il camminare all’indietro. Questa metafora potrebbe essere stata usata per sottolineare, in modo ironico, un atteggiamento di resistenza al cambiamento o una certa tendenza alla retroguardia.
Va comunque chiarito che l’interpretazione del detto non è affatto negativa, ma piuttosto una bonaria presa in giro, come spesso accade con le espressioni popolari che combinano tradizione e umorismo per raccontare qualcosa delle comunità a cui si riferiscono.
Giovanotto rinvecchiato
Il detto “Giovanotto rinvecchiato” è usato a Prato per descrivere in modo ironico e sarcastico quei ragazzi che, nonostante l’età avanzata e non ancora sposati, continuano a comportarsi come se fossero ancora giovani di primo pelo. L’espressione sottolinea il contrasto tra l’età anagrafica e il comportamento infantile, creando un effetto comico e grottesco. L’accostamento di queste due parole crea un ossimoro, ovvero un’espressione che contiene due concetti contradditori. In questo caso, il contrasto tra “giovanotto” e “rinvecchiato” sottolinea l’incongruenza del comportamento del soggetto in questione.
Il detto può assumere diverse sfumature di significato a seconda del contesto in cui viene usato. Può essere utilizzato in modo bonario e scherzoso, per prendere in giro un amico o un conoscente. Oppure, può essere usato in modo più critico e sarcastico, per condannare l’immaturità e la superficialità del soggetto in questione.
Gl’ha fatto il guadagno di Lica
Il detto toscano “Gl’ha fatto il guadagno di Lica” si usa per indicare una situazione in cui qualcuno, cercando di ottenere un vantaggio o un guadagno, finisce per rimetterci in termini di tempo, denaro o sforzi. In parole povere, il gioco non vale la candela.
L’origine del proverbio non è del tutto certa, ma si ipotizza che derivi da una storia popolare in cui un uomo di nome Lica, in cerca di un guadagno facile, si ritrovò in una situazione spiacevole che gli costò più di quanto avesse previsto. In sostanza, Lica rappresenta chi, nell’intento di ottenere qualcosa, finisce per perdere di più di quanto avrebbe potuto guadagnare.
Quando nel gergo volgare toscano qualcuno dice, riferendosi a un malaffare condotto da un altro individuo: “Tu hai a fare come il Lica!”, e se l’interlocutore non conosce questa espressione colorita, può rispondere: “E cosa fece codesto Lica?”. La risposta, lapidaria e in dialetto toscano, è: “Dette via il c**o per un po’ di f**a”. Questo rafforza il significato del proverbio, indicando che Lica ha scambiato qualcosa di molto prezioso per un piacere effimero e breve, rimettendoci significativamente.
Gl’è belle la seconda volta che va in cucina a rifrustare
Tradotta in italiano come “È già la seconda volta che va in cucina a cercare qualcosa”. Tuttavia, la parola “rifrustare” può avere diverse sfumature di significato a seconda del contesto specifico del dialetto toscano in cui viene utilizzata. In generale, può riferirsi a cercare o a frugare in cerca di qualcosa, ma può anche avere connotazioni più specifiche legate all’atto di cercare cibo o ingredienti in cucina.
Gl’è come i gatto a i caminetto: “E par che dorma, invece…”
Il detto si riferisce a una situazione in cui qualcuno sembra tranquillo, inattivo o poco attento, ma in realtà sta osservando attentamente ciò che accade intorno a lui, pronto a intervenire o reagire in qualsiasi momento. L’analogia con il gatto accanto al camino si basa sul comportamento tipico dei gatti che, pur sembrando addormentati o tranquilli, mantengono sempre un livello di attenzione elevato, pronti a muoversi o reagire al minimo stimolo. Quindi, il detto suggerisce che la calma apparente può nascondere una vigilanza attenta e pronta a reagire.
Gl’è come urlare a i vento, disse i gallo che cantava nell’aia di sordo
Il detto descrive una situazione in cui qualcuno sta facendo un’azione inutile o inefficace, simile a gridare in un luogo dove non può essere udito. L’analogia viene fatta con il gallo che canta nell’aia di un sordo: nonostante il gallo canti, il sordo non può sentire il suo canto, quindi l’azione del gallo è inutile. In modo simile, quando qualcuno fa qualcosa che non ha alcun effetto o impatto, si può dire che è come “urlare ai venti”.
Gl’è tornato a casa mezzo stralinco
Il detto indica che qualcuno è tornato a casa in uno stato di salute non ottimale o in uno stato d’animo particolare, che può variare da una leggera indisposizione a uno stato di confusione mentale o agitazione. Utilizzando il termine “stralinco”, si suggerisce che la persona non si senta al meglio, che possa essere fuori dall’ordinario o in uno stato insolito rispetto alla norma. In sostanza, il detto indica che la persona è tornata a casa non completamente in forma o con qualche problema, sia fisico che mentale.
Gl’è come Cacutte, le vuol saper tutte
Chi sia Cacutte non è dato sapere. Ma la rima era sufficiente per questa frase che stigmatizza l’eccessiva curiosità di una persona.
Gl’è come un gatto rosso: “piange e trom*a”
Il detto si riferisce alla caratteristica del gatto maschio, soprattutto se di colore rosso, di emettere un miagolio simile a un lamento quando è in calore. Questo comportamento è spesso seguito dall’incontro con una compagna per l’accoppiamento, da cui il detto “piange e trom*a”. Questa analogia viene estesa al contesto dei piccoli imprenditori pratesi, i quali, simili al gatto rosso, tendono a lamentarsi anche quando le condizioni sono favorevoli. Nonostante possano trovarsi in situazioni ottimali di lavoro e remunerazione, essi continuano a lamentarsi della scarsità di opportunità o della difficoltà delle condizioni lavorative. In sostanza, il detto sottolinea la tendenza dell’imprenditore a lamentarsi costantemente, anche quando le circostanze sono favorevoli, paragonandolo al gatto che lamenta il suo stato mentre in realtà gode dei benefici della propria situazione.
H
Ho comprato de pomodori imbaiati, tu sentissi boni
Questo modo di dire indica che una persona ha acquistato dei pomodori di ottima qualità, particolarmente gustosi o saporiti. Utilizzando il termine “imbaiati”, che significa “invaiati”, si sottolinea che i pomodori sono maturi al punto giusto, appena prima della piena maturazione, e probabilmente ricchi di sapore e succosità. Quindi, il detto suggerisce che i pomodori acquistati sono così gustosi che sarebbe un piacere assaggiarli.
Ho da fare quante quello che morì di notte
Espressione massima dell’essere indaffarato, di non aver tempo. Si fa riferimento a un “mitico” e fantasioso personaggio talmente impegnato di giorno che dovette rinviare alla notte la sua morte.
Ho venduto i maiale a sette (7)
Il detto si riferisce alla pratica di cercare di vendere una merce esauribile, come i maiali nel caso specifico, contattando più persone possibili per garantire la vendita dell’intero stock. Tuttavia, questa strategia può portare alla promessa di vendita della merce a più acquirenti di quanto effettivamente disponibile in magazzino. Di conseguenza, ci si ritrova con più acquirenti che beni disponibili e la situazione si trasforma in un’accesa competizione per assicurarsi il prodotto. La scena ritrae le persone che si trovano in magazzino a contendersi il bene, cercando di assicurarselo e caricarlo sulle proprie auto, a discapito degli altri acquirenti mentre il venditore se la ride avendo raggiunto il proprio scopo.
I
I che mi stillerò nella mi vita
Questa espressione paesana, spesso utilizzata in tono ironico e bonario, esprime una sorta di rassegnazione scherzosa o accettazione verso il futuro, legata a un evento o a un comportamento osservato. Viene pronunciata, ad esempio, da una nonna che, vedendo un nipote giovane e inesperto fare qualcosa in modo non del tutto corretto, lo corregge e poi, con un sorriso ironico, esclama: “I che mi stillerò nella mi vita!”.
La frase, più che un vero lamento, diventa un’esortazione alla crescita e all’apprendimento, sottolineando affettuosamente la necessità di migliorare. Il significato può essere inteso come un bonario “chissà come andrà a finire la mia vita!” o “guarda cosa devo affrontare nella mia vita!”. Usata in questo contesto, porta con sé un mix di amore, complicità e fiducia nel percorso di crescita della persona a cui è rivolta.
La parola “stillare” ha origini latine (stillare, derivato da stilla, goccia) e, nel suo significato letterale, indica l’atto di far cadere o colare lentamente qualcosa, goccia a goccia. Può essere usata in diversi contesti:
- Letterale:
- Far cadere o versare una sostanza liquida goccia a goccia.
- Es. “La rugiada stillava dalle foglie al mattino.”
- Figurato:
- Indica il far emergere gradualmente qualcosa, come un pensiero, un’idea, un’emozione.
- Es. “Le sue parole stillavano saggezza.”
Nell’espressione “I che mi stillerò nella mi vita”, il termine assume un uso popolare e figurato. Qui “stillare” potrebbe essere inteso nel senso di “sgocciolare” o “trapassare lentamente”, con riferimento ironico al trascorrere della vita o al destino che si manifesta poco a poco, quasi goccia a goccia. L’uso è volutamente iperbolico, con una sfumatura di rassegnazione divertita che rende la frase un’esclamazione colorita e simpatica.
I giorno dell’ascensione neanche l’uccello e razzola l’ovo ni nido
Il detto serve a far capire l’importanza del giorno, nel quale anche gli uccelli, nonostante non possano comprendere la logica delle feste religiose, dimostrano rispetto interrompendo le loro attività quotidiane. Questo richiamo all’osservanza del giorno dell’Ascensione sottolinea l’importanza del rispetto per le festività religiose e invita gli uomini a interrompere le loro attività commerciali in segno di devozione e rispetto. Quindi, l’uso degli uccelli nel detto serve a comunicare che, anche se non comprendono il significato delle festività, riescono comunque a rispettarle, invitando implicitamente gli uomini a fare altrettanto.
I grilli per la testa
Questo modo di dire è spesso usato e riferito a persone che hanno idee piuttosto bizzarre o impossibili. Perché? Quella persona si comporta infatti come se avesse nella testa tantissimi grilli che, con il loro saltellare incessante e il suono che emettono, non consentono di pensare in modo lucido e razionale. Per altri l’espressione deriverebbe dai balzi che sono in grado di fare questi insetti, il più delle volte altissimi e difficili da replicare (l’insetto, secondo alcuni studi, è in grado di saltare 60 volte la sua grandezza). Per tale motivo “i grilli per la testa” sarebbe usata come frase anche in riferimento a individui che hanno ambizioni smodate e che non si possono realizzare.
Variante: Che l’ha la ragazzina i tu nipote? No, gl’ha ancora la testa a grilli!
Tipica frase di paese utilizzata in modo figurato per indicare che il giovane ragazzo ha ancora idee strane, bizzarre o ambizioni irrealistiche e non pensa minimamente di cercare una relazione sentimentale stabile. In questo contesto, “la testa a grilli” si riferirsi alla presenza di pensieri eccentrici o sogni particolarmente audaci nella mente del ragazzo, simili al comportamento di chi ha la testa piena di grilli che saltellano e disturbano il pensiero razionale.
Il tempo fa culaia
Il detto “Il tempo fa culaia” è un’espressione popolare, colorita e un po’ irriverente, che descrive un cielo carico di nuvole nere e minacciose, preludio a un imminente acquazzone. Si usa per indicare che il tempo sta cambiando rapidamente e che la pioggia è ormai imminente.
Origine del detto
L’origine di questa locuzione è curiosa e piuttosto singolare. Deriva dalla pratica antica di far frollare la cacciagione: gli uccelli venivano appesi per il collo, e con il tempo, a causa della putrefazione, gli intestini si spostavano verso il basso gonfiando la parte posteriore del corpo, cioè il “culo” del volatile. Questo rigonfiamento, chiamato “culaia”, indicava che la carne era pronta per essere cucinata.
L’associazione con il cielo minaccioso nasce proprio dall’immaginario popolare: le nuvole scure e gonfie richiamavano alla mente l’aspetto del volatile in questo stato. Anche se il paragone non è propriamente elegante, è efficace nel trasmettere l’idea visiva.
Uso nella lingua parlata
Oggi il detto è utilizzato in modo scherzoso, soprattutto a Prato e dintorni, per avvisare chi ascolta che è meglio rientrare o prepararsi alla pioggia. Per esempio, è comune sentir dire:
- “Gniamo a casa, vai, che questo tempo fa culaia!”
Il termine racchiude in sé non solo l’osservazione del cambiamento climatico, ma anche un tocco di ironia tipica del vernacolo toscano.
In barba di micio
Nonna come stai? Bene, bene! Siamo qui in barba di micio.
“In barba di micio” è un’espressione colloquiale che significa oziare o passare il tempo senza far nulla in particolare. Derivata dall’immagine del gatto sazio che si siede agiatamente, leccandosi i baffi, l’espressione indica una situazione di agio e tranquillità, simile a quella del gatto che si gode il suo riposo dopo essersi saziato. Quando qualcuno risponde con “Bene, bene! Siamo qui in barba di micio” a una domanda su come stia in un certo luogo, sta indicando che si trova bene in quel contesto e che le giornate trascorrono piacevolmente senza particolari preoccupazioni.
In do’ va tu’ le son cipolle
Frase che indica la difficoltà di dialogare con qualcuno, perché quel qualcuno non capisce.
Indo un ce n’è un ci se ne mette
Considerazione sconsolata sulla dabbenaggine di alcune persone. Inutile dare consigli, istruzioni o raccomandazioni sensate a chi non ha cervello. Dove non c’è intelligenza e buon senso, non se ne può nemmeno aggiungere.
Insegnare agl’ignoranti l’è un’opera di misericordia, e ai ciui gli s’insegna con le pedate
Il detto sottolinea l’importanza dell’insegnamento per coloro che mancano di conoscenze o competenze. La prima parte del detto enfatizza il concetto di carità e compassione nell’educare coloro che sono privi di istruzione o consapevolezza, considerando l’insegnamento come un atto di gentilezza e benevolenza. Tuttavia, la seconda parte del detto aggiunge un tono ironico o critico, suggerendo che talvolta alcune persone (ciui) sono così testarde o riluttanti a imparare che richiedono un approccio più deciso o forzato. L’espressione “con le pedate” indica che in certi casi è necessario utilizzare metodi più severi o coercitivi per far comprendere loro la lezione. In sostanza, mentre l’insegnamento è considerato un atto di gentilezza, ci sono situazioni in cui è necessario essere più incisivi per far progredire l’apprendimento, soprattutto con coloro che sono particolarmente restii o difficili da istruire.
Invitare il matto alle sassate
Stuzzicare una persona o provocarla a tenere comportamenti che già sono nelle sue caratteristiche. “Che hai dato i’ motorino truccato a Piero? E allora tu inviti i’ matto alle sassate. Tu lo sai che gli è spericolato e gli piace correre”.
L
La fava di Doni
L’origine dell’espressione “La fava di Doni” nel dialetto pratese è avvolta nel mistero, alimentando fascino e curiosità. Diverse teorie cercano di spiegare questa frase, ma nessuna ha ancora trovato conferma definitiva. Le teorie sull’Origine sono:
1. Antico Proverbio: Si ipotizza che l’espressione possa derivare da un proverbio pratese ormai perduto, dove la “fava” rappresentava qualcosa di lungo, noioso o insignificante.
2. Leggenda Locale: Un’altra possibilità è che l’espressione faccia riferimento a una leggenda pratese legata a un personaggio storico, il sig. Doni, aggettivato in dialetto toscano come “fava” in seguito a un evento specifico e quindi ricordato come “la fava di Doni”. In Toscana, infatti, la parola “fava” viene utilizzata come offesa. Se detta scherzosamente, può essere bonaria, ma se espressa con violenza, diventa molto pesante. Nel dialetto toscano, “fava” è usata (declinata al femminile) per riferirsi all’organo sessuale maschile, e l’espressione popolare varia di significato a seconda dell’intensità con cui è detta e a chi è rivolta. Può indicare una persona che capisce poco o niente, scarsamente intelligente, poco sveglia, incapace di fare e pensare, praticamente… un “bischero”. Per questo motivo, l’espressione potrebbe anche essere stata utilizzata nel passato per descrivere una persona che compie azioni poco intelligenti e, per questo, etichettata con la frase “la fava di Doni”, in riferimento al fantomatico sig. Doni e alle sue gesta. Tuttavia, non ci sono tracce documentate che confermino questa teoria.
3. Espressione Figurativa: La diceria popolare “la fava di Doni” potrebbe affondare le sue radici in una descrizione ironica o scherzosa delle notevoli dimensioni virili di un noto personaggio storico pratese, il sig. Doni. L’espressione potrebbe richiamare alla mente non solo oggetti di grandi dimensioni, ma anche l’imbarazzo che la presenza del sig. Doni poteva suscitare a causa della pregevole lunghezza. Infatti, in base a questa ipotesi, “la fava di Doni” viene utilizzata come esclamazione per enfatizzare la grandiosità, la genialità o la crescita di qualcosa, assumendo un significato di apprezzamento e incoraggiamento. Nel racconto, l’esclamazione “la fava di Doni” sottolinea la rilevanza e l’importanza dell’argomento in questione.
Nonostante l’incertezza sulle sue origini, l’espressione “La fava di Doni” è profondamente radicata nella cultura pratese, utilizzata per descrivere situazioni o racconti tediosi, per sottolineare azioni poco illuminate o manifestare apprezzamenti di vario genere. Concludendo questa frase rappresenta un pezzo del patrimonio linguistico locale, mantenendo vivo il legame con le tradizioni e il folclore della città.
La fretta fa rompere la pentola
È un detto che nasce dalla saggezza popolare e vuole ricordarci quanto sia controproducente fare qualcosa mossi dalla fretta. Questo, infatti, può portare a conseguenze inaspettate, ma che sarebbero state facilmente evitabili. Questo suggerimento è tra i più conosciuti ed è molto utilizzato, rientra in quell’ampio gruppo di modi di dire che vogliono porre l’accento sulle conseguenze negative dell’avere fretta. Anche il termine pentola è tra quelli che vengono spesso utilizzati nei detti. Il messaggio che ci vuole trasmettere la saggezza popolare è quello di non lasciarsi attrarre dalle lusinghe della fretta e della velocità a tutti i costi, perché ci possono condurre verso risultati poco graditi. Il consiglio – dunque – è quello di lavorare con calma per fare le cose nella maniera migliore possibile.
La madia la unn’ha girelle
Dopo tanto girovagare si torna sempre sempre a casa. (la madia, mobile dove si tiene il pane, è il simbolo della casa)
Legare la stagna a i’ culo
Espressione popolare che sta a significare: “Chiudere definitivamente un rapporto di amicizia o di lavoro con qualcuno” – “Orazio un tu ce lo vedi più intorno casa mia! Gli ho legato la stagna a i’ culo!”
(da Giacomo Bigagli)
Leva e non metti ogni bel monte ascema
Principio economico basilare. Se si toglie sempre e non si aggiunge mai, se si spende sempre e non si guadagna mai, ogni capitale, per quanto consistente, è destinato a diminuire fino ad annullarsi.
M
Mangiare il fumo alle schiacciate
È chiara la natura paradossale della locuzione, dato che, come giustamente argomenta il Ravagliulo-Incordati: «…il fumo della schiacciata è elemento inconsistente ed inafferrabile, nonché effimero, e pertanto il solo tentare di levarlo risulta azione vana ed illusoria come il fare la punta alle scorregge… » (cfr. ULRICO RAVAGLIULO-INCORDATI, Fenomenologia della schiacciata tra utopia e realtà, Colgate 1966)
Per tanto, questa espressione viene utilizzato per evidenziare un’elevata abilità nel realizzare alcunché con tempestività ed efficienza e, per traslato, prontezza di riflessi e di apprendimento.
“Mi sento male!” Non c’è pensieri, non è un male che i prete ne goda
Il detto si riferisce a una situazione in cui un individuo dichiara di sentirsi male, suscitando preoccupazione negli altri. Tuttavia, una persona più saggia e consapevole della situazione valuta che il malessere lamentato non sia così grave da richiedere troppe preoccupazioni o addirittura l’intervento spirituale o l’estrema unzione da parte di un prete. In passato, quando una persona si ammalava gravemente e si chiamava il prete per l’estrema unzione, si rischiava che il prete cercasse di ottenere donazioni o beni dal malato per la Chiesa, a volte approfittando della situazione. Pertanto, l’affermazione “Non c’è pensieri, non è un male che il prete ne goda” indica che il malessere lamentato non è così grave da richiedere un intervento religioso, e che non c’è bisogno di preoccuparsi eccessivamente in quanto il male andrà via da sé.
Monta qui e guarda Lucca; monta quassù e vedila tutta
Questo detto toscano viene utilizzato in situazioni in cui qualcuno è costretto a rispondere a una richiesta che potrebbe essere difficile da negare o poco vantaggiosa per chi la riceve. Invece di rispondere direttamente con un “no” o di rifiutare apertamente, l’individuo usa questa espressione colorita per sfuggire all’imbarazzo di una risposta negativa. Quando la richiesta è fatta in modo furbo o con l’intento di trarre vantaggio a discapito dell’interlocutore, la risposta “Monta qui e guarda Lucca; monta quassù e vedila tutta” viene utilizzata per esprimere una sorta di rabbia o fastidio verso chi sta cercando di ingannare o sfruttare la situazione a proprio vantaggio. In questo contesto, il gesto dell’ombrello e il toccarsi la spalla e alzare la mano a pugno verso il cielo aggiungono un tocco di teatralità alla risposta, enfatizzando il rifiuto implicito della richiesta e la determinazione nel non essere ingannati o sfruttati. Nello specifico, l’espressione “Monta qui”, con il termine “qui” inteso come vertice del glande, equivale all’altrettanto volgare “Col ca**o!”.
N
Nè ma’ più né ma’ poi
Espressione e proponimento quasi solenne per dire che mai più accadrà o si farà quella cosa.
Nella pentola grossa ci si cucina il poco e l’assai
Il detto popolare riflette la saggezza pratica di utilizzare utensili domestici di dimensioni generose. Questa espressione suggerisce che possedere una pentola di dimensioni ampie consente di preparare porzioni sia abbondanti che ridotte di cibo, garantendo flessibilità nel caso di ospiti improvvisi o cambiamenti nei piani. La metafora sottolinea la comodità di avere una riserva di cibo pronta per essere condivisa, trasmettendo un senso di accoglienza e sicurezza nella capacità di far fronte a situazioni impreviste.
Niente maniera, gl’ha vorsuto fare come gl’è parso
La frase esprime una situazione in cui una persona, nonostante i consigli e le considerazioni offerti, decide di agire esclusivamente secondo il proprio giudizio e desiderio, ignorando le opinioni altrui e le evidenze circostanti. Questo comportamento spesso porta a scelte avventate e irresponsabili, con conseguenze negative sia per chi prende la decisione che per coloro che ne subiscono le conseguenze, come familiari, amici o dipendenti aziendali. La frase riflette il senso di frustrazione e impotenza di fronte a chi si ostina a fare le proprie scelte senza considerare il parere degli altri, rischiando di causare problemi e conflitti.
Non c’è pace pe chi lavora
Il detto esprime l’idea che coloro che lavorano sono spesso soggetti a pesanti responsabilità e oneri, sia fisici che psicologici ed economici, mentre coloro che non lavorano godono di maggiore tranquillità. I lavoratori si sentono gravati non solo dalle fatiche del lavoro, ma anche da ulteriori obblighi imposti dal governo e dalle istituzioni. Questo detto riflette quindi la percezione dei lavoratori che, oltre alle fatiche quotidiane, si vedono costretti a sostenere ulteriori oneri per il benessere della nazione.
(Non) reggere il semolino
Detto di persona debole. “Lo vedi come gli è deboluccio, un regge neanche i’ semolino”. Detto anche di persona che non accetta scherzi o critiche.
(Non) sentirsi per la quale
Non sentirsi bene. “Vieni alla festa? Preferisco stare in casa, non mi sento tanto per la quale”.
Non ti lamentare di gamba sana
Il detto popolare “Non ti lamentare di gamba sana” è utilizzato per mettere in evidenza il comportamento di chi, pur beneficiando del lavoro altrui o delle attenzioni ricevute, continua a lamentarsi e criticare le azioni degli altri senza apprezzare il loro impegno e sacrificio. Questo detto sottolinea l’importanza di riconoscere e apprezzare coloro che svolgono mansioni faticose o poco gratificanti, come le faccende domestiche o i lavori mal remunerati, e che lo fanno senza lamentarsi o e spesso senza chiedere nulla in cambio o veramente poco. Viene suggerito di evitare di lamentarsi di fronte a queste persone, definite “gamba sana”, che lavorano instancabilmente per il benessere degli altri, poiché senza di loro ci sarebbe una maggiore difficoltà nel gestire le responsabilità quotidiane. In sostanza, il detto invita a riconoscere il valore di chi si impegna senza lamentarsi e a essere grati per il loro contributo.
Nonna, stai a bada! Lo vedi tu hai tutta la cappa attofizzolata
La frase “Nonna, stai a bada! Lo vedi tu hai tutta la cappa attofizzolata” esprime un avvertimento gentile alla nonna, invitandola a prestare attenzione. L’espressione “stai a bada” equivale a “stai attenta”, indicando una preoccupazione per la sicurezza o il benessere della nonna. Il riferimento al cappotto “attofizzolato” indica che il capo d’abbigliamento della nonna è tutto arricciato o sgualcito, probabilmente a causa di una cattiva piegatura quando è stato riposto nell’armadio. In definitiva, la frase suggerisce una combinazione di affetto e cura, invitando la nonna a fare attenzione e prendersi cura di sé stessa, osservando anche i dettagli della sua apparenza.
Nonna i che t’à fatto alle mani? Ehhèè sta zittino! L’altra settimana sono entrata ni giardino, vicino alle rose, e ni girammi e mi graffiedi tutta.
La frase “Nonna, i che t’à fatto alle mani?” è un’espressione di premura verso la nonna, equivalente a “Nonna, cosa ti è successo alle mani?”. La risposta della nonna, “Ehhèè sta zittino!”, è un modo di dire usato quando qualcuno ha subito un inconveniente a causa della propria distrazione o imprudenza, invitando l’interlocutore a tacere o a non fare ulteriori commenti. La frase dialettale “L’altra settimana sono entrata ni giardino, vicino alle rose, e ni girammi e mi graffiedi tutta.” descrive un incidente accaduto alla nonna mentre si trovava nel giardino, vicino alle rose, e ruotandosi ha urtato le spine dei fiori, procurandosi graffi. La nonna, con un sorriso e una battuta, cerca di sdrammatizzare la situazione, riconoscendo il suo errore e suggerendo al nipote di imparare dalla sua esperienza.
O
Occhio ragazzi, questo gl’è figlio unico di madre vedova
Questa espressione viene utilizzata quando si presta qualcosa di particolarmente prezioso o unico, oppure quando si presta un oggetto che è difficile da sostituire o ritrovare. Al momento della consegna, si richiama l’attenzione della persona a cui viene assegnato l’oggetto, sottolineando l’importanza di trattarlo con cura e restituirlo integro. L’uso dell’espressione “occhio ragazzi” anziché “occhio ragazzo” indica l’intenzione di rivolgersi non solo al destinatario diretto, ma anche a chiunque altro possa essere presente e utilizzare l’oggetto. La frase “questo gl’è figlio unico di madre vedova” richiama l’immagine di un figlio unico il cui genitore è vedovo, sottolineando la situazione di unicità e irripetibilità. Così come la madre vedova non potrebbe generare un altro figlio con gli stessi geni, se l’oggetto dovesse essere danneggiato irreparabilmente, non sarebbe possibile sostituirlo o replicarlo. In entrambi i casi, si enfatizza la rarità e il valore dell’oggetto, nonché l’importanza di trattarlo con la massima cura e rispetto.
Ogni mattina s’alza un bischero e uno furbo: “se s’incontrano l’affare è fatto!”
Questa espressione rappresenta un insegnamento della saggezza popolare che mette in guardia le persone troppo buone o fiduciose nei confronti degli altri. Il detto sottolinea che nel mondo esistono non solo individui altruisti e onesti, ma anche individui astuti e senza scrupoli, definiti “furbi”. Coloro che si fidano eccessivamente o sono ingenui vengono chiamati “bischeri”, non per mancanza di intelligenza ma per la loro bontà d’animo. La frase avverte che quando un “bischero” e un “furbo” si incontrano, è probabile che il furbo riesca a ingannare il buon cuore del bischero. L’ultimo verso, “l’affare è fatto”, sottolinea che quando ciò accade, l’inganno è compiuto e il danneggiato è stato ingannato. In sintesi, il detto consiglia alle persone di essere prudenti e attente, poiché non tutti hanno intenzioni oneste e altruiste, e il rischio di essere sfruttati esiste sempre.
Oh grullaia ma botta che n’hai?
Nel dialetto pratese, l’espressione “Oh grullaia! Ma botta che n’hai?” rappresenta un vivace esempio dell’uso caratteristico del linguaggio toscano per esprimere sorpresa o incredulità di fronte al comportamento insolito di una persona. Il termine “grullaia” deriva dall’aggettivo toscano “grullo”, che indica qualcuno un po’ tonto o goffo. Questo viene enfatizzato e reso più colorito aggiungendo il suffisso “-aia”. Sebbene comunemente usato per nomi di luoghi come “pollaia” o “legnaia”, per indicare gruppi di persone o animali come “piccolaia” (gruppo di bambini) o “fagianaia” (gruppo di fagiani), e in alcuni casi assume un significato figurato o scherzoso, enfatizzando caratteristiche o comportamenti come “panciaia” (pancia grande) o “boccaia” (bocca larga), in questo contesto, il termine “grullaia” scherzosamente sottolinea l’idea di stupidità o goffaggine.
Dall’altro lato, l’esclamazione “Ma botta che n’hai?” è una frase colloquiale pratese che, tradotta letteralmente, significa “Qual è il colpo che hai preso?” o “Che tipo di shock hai subito?”, dove “botta” si riferisce figurativamente a uno shock o a un cambiamento repentino. Questa espressione viene utilizzata per esprimere stupore o perplessità di fronte a un comportamento inatteso o bizzarro da parte di qualcuno.
L’uso combinato di “grullaia” e “botta che n’hai?” riflette un modo vivace e colorito di comunicare, dove le espressioni locali sono spesso arricchite da giochi di parole e da sfumature di significato. Questa frase viene impiegata quando si vuole sottolineare l’imprevedibilità o la stranezza di un comportamento, e serve anche a richiedere spiegazioni o chiarimenti in modo scherzoso ma diretto.
Oh, to mae in dò ella?
Il modo di dire paesano “Oh, to mae in dò ella?” è una simpatica espressione del dialetto pratese che oggi risulta sempre meno diffusa, ma conserva tutto il calore e la vivacità delle tradizioni locali. Si tratta di una domanda rivolta soprattutto dalle nonne ai nipoti per sapere dove si trovi la madre, solitamente quando questa è assente da casa.
- “Oh”: tipica esclamazione introduttiva usata spesso nel dialetto pratese per richiamare l’attenzione, simile al “eh” toscano.
- “to”: contrazione di “tua”, riferito alla mamma del nipote.
- “mae”: termine affettuoso per “mamma”.
- “in dò”: variante di “in dove”, ovvero “dove”.
- “ella”: corrisponde a “è” o “si trova”, conferendo al tutto un tono interrogativo.
Il significato completo è quindi: “Dove è tua mamma?” oppure “Dove si è diretta tua mamma?”. Il tono è affettuoso, curioso e tipicamente familiare.
Questo modo di dire fa parte di un linguaggio spontaneo che riflette il forte senso di comunità e i legami familiari radicati nelle tradizioni locali. Oggi si sente raramente, poiché il dialetto pratese, come molti altri, tende a essere meno praticato dalle nuove generazioni, ma resta un dolce ricordo dei dialoghi domestici di un tempo.
P
Perché io sto co frati e zappo l’orto
Quando una persona utilizza questa espressione, sta comunicando un concetto complesso. Inizialmente, indica la propria capacità di interagire e discutere con individui di alto livello intellettuale, rappresentati simbolicamente dai frati. Questo suggerisce un certo grado di auto-stima e fiducia nelle proprie capacità di comprendere e partecipare a discussioni di un certo livello di profondità. Tuttavia, l’espressione continua con l’immagine dell’azione di “zappare l’orto”, un compito umile e tradizionalmente associato a una posizione sociale meno elevata. Questo secondo elemento della frase serve ad equilibrare l’immagine di autostima iniziale, indicando che nonostante la capacità di confrontarsi con individui di alto livello, la persona rimane umile e non rifiuta compiti considerati meno prestigiosi. In sostanza, il detto sottolinea l’importanza di mantenere un equilibrio tra autostima e umiltà, dimostrando la capacità di interagire sia con persone colte che con quelle impegnate in compiti umili, senza lasciarsi trascinare dall’orgoglio o dalla presunzione.
Più sudicio d’un baston da pollaio (Più sudicio di un bacchio da pollaio)
Termine di paragone della massima sporcizia. Il baston da pollaio è costantemente coperto dagli escrementi di galli e galline.
Per Berlingaccio casca l’asino nel motaccio
Motto legato al calendario e alla meteorologia. Berlingaccio è il giovedì grasso di Carnevale, giorno in cui ci si dava alla pazza gioia. In quel periodo dell’anno solitamente piove e si affonda nella mota.
Prese i treno e gl’andò a Livorno e da qui giorno e un’è più torno
Questo detto è utilizzato in modo ironico e scherzoso per indicare che una persona è partita per un posto e non è più tornata. Originariamente, faceva riferimento al fatto che in passato molte persone partivano da Prato e si recavano a Livorno per imbarcarsi verso destinazioni lontane, spesso oltre oceano, alla ricerca di fortuna. Tuttavia, molti di coloro che partivano non facevano più ritorno. Nel contesto locale, il detto veniva scherzosamente applicato a persone che non si facevano più vedere nel paese per vari motivi, anche se non erano effettivamente partiti per espatriare. Quando si chiedeva del loro destino e qualcuno rispondeva con questa espressione, si intendeva chiudere la discussione in modo umoristico, suggerendo che la persona in questione era partita e non sarebbe più tornata, anche se non per motivi di emigrazione. In sintesi, il detto è una battuta lapidaria utilizzata per concludere una conversazione su qualcuno che è scomparso dalla vista senza motivo apparente, aggiungendo un tocco di ironia e umorismo alla situazione.
Q
Quella l’ha belle scorso la cavallina
La frase veniva rivolta ad una ragazza che aveva avuto diverse relazioni o esperienze romantiche con uomini nel corso del tempo. La parola “cavallina” veniva utilizzata in modo colloquiale per riferirsi a esperienze amorose o relazioni romantiche.
Qui si fa la fine dell’usuraio di Papi! E lo portonno a i manicomio
Questo detto affonda le sue radici in una storia locale riguardante un uomo di nome Papi, residente nel paese di Galciana, noto per essere un usuraio che praticava tassi di interesse esorbitanti. La sua attività consisteva nel prestare denaro a condizioni sfavorevoli, accumulando ricchezze ma anche l’odio e la rabbia della comunità. Papi era rinomato per la sua abilità nel tenere i conti e i registri, ma col passare degli anni, la vecchiaia e la perdita progressiva della lucidità mentale lo portarono a commettere errori nei calcoli e nelle operazioni finanziarie. Questo lo portò a ricorrere anche a pratiche ingiuste, chiedendo denaro a chi già aveva ripagato il debito creando ulteriori attriti e contenziosi. Alla fine, sopraffatto dalla confusione mentale fu portato in un manicomio, dove morì poco tempo dopo. Il detto viene utilizzato per sottolineare l’importanza dell’equilibrio e della moderazione nelle attività finanziarie e per ammonire coloro che si dedicano eccessivamente alla ricerca del guadagno, rischiando di perdere la propria salute mentale e la propria felicità, svolgendo attività che danneggiano le altre persone. La storia di Papi serve da monito contro l’avidità e l’ingiustizia, ricordando che alla fine coloro che perseguono il profitto a scapito degli altri potrebbero finire per pagare un prezzo molto alto.
Quando tu t’arzi te ho belle fatto du colazioni
Questo detto è utilizzato scherzosamente dalle persone che si svegliano presto al mattino per confrontarsi con coloro che invece preferiscono alzarsi più tardi. Di solito, coloro che si alzano presto sono individui impegnati e determinati, pronti a sacrificarsi per raggiungere i propri obiettivi e ad affrontare le proprie responsabilità. La mattina, prima di iniziare le attività lavorative, è comune fare colazione, e dopo qualche ora si può fare una seconda colazione per riposarsi e rinfrescarsi prima di affrontare la seconda parte della mattinata. Spesso accade che chi si alza presto abbia già fatto due colazioni quando gli altri ancora dormono. Il detto viene usato in modo scherzoso per deridere coloro che preferiscono dormire più a lungo, ignorando gli impegni e i doveri del mattino, e giustificando il loro risveglio tardivo per presunte preoccupazioni sulla salute. Tuttavia, svegliarsi presto comporta sforzi e rinunce, come andare a letto prima la sera, mentre coloro che amano fare tardi tendono a delegare i compiti mattutini ad altri, rischiando di essere considerati pigri e irresponsabili. In definitiva, il detto sottolinea la differenza di abitudini e stili di vita, talvolta creando attrito e divergenze tra le persone.
R
S
Sai una se*a te chi se la bevve
Espressione toscana, particolarmente diffusa nell’area pratese, “Sai una se*a te chi se la bevve” è un detto colorito e diretto che viene usato per respingere con decisione l’opinione di qualcuno, sottintendendo che non solo non sa di cosa sta parlando, ma che la sua versione dei fatti è talmente inverosimile da risultare ridicola.
La frase si compone di due parti:
- “Sai una se*a te”: Questa espressione è un modo schietto e irriverente per affermare che l’interlocutore non sa assolutamente nulla riguardo all’argomento in discussione. L’uso di “una se*a”, termine volgare ma comunemente usato nel parlato toscano, enfatizza la totale mancanza di conoscenza, andando ben oltre un semplice “non lo sai”. È una dichiarazione netta e definitiva che stronca qualsiasi pretesa di competenza.
- “Chi se la bevve?”: Questa seconda parte della frase introduce un ulteriore elemento di ironia e scetticismo. Non è una vera domanda, ma una sfida retorica che sottintende che nessuno con un minimo di buon senso potrebbe credere a ciò che è stato detto. L’immagine del “bersi” qualcosa richiama l’idea di accettare ingenuamente una storia senza metterla in discussione, e qui viene usata per sottolineare quanto l’informazione riportata sia palesemente inaffidabile o assurda.
L’espressione si usa per smontare l’opinione di qualcuno che pretende di sapere qualcosa senza avere una reale conoscenza dell’argomento, e contemporaneamente per evidenziare l’inattendibilità di ciò che sta dicendo.
Esempi di utilizzo:
- Qualcuno cerca di spiegarti un evento del quale non ha alcuna informazione diretta?
- “Sai una se*a te chi se la bevve!” (→ Non sai nulla e figurati se qualcuno crede a questa storia!)
- Un amico insiste nel dirti che una certa persona è sincera, mentre tu sai benissimo che mente?
- “Sai una se*a te chi se la bevve!” (→ Non ne sai niente e questa è una fandonia!)
- Qualcuno vuole convincerti che un conoscente ha fatto qualcosa di incredibile?
- “Sai una se*a te chi se la bevve!” (→ Non solo non lo sai, ma chi vuoi che ci caschi?)
Come molte espressioni toscane, anche questa mescola ironia, pragmatismo e una buona dose di schiettezza, caratteristiche tipiche del modo di parlare pratese.
Sant’Affogo fu ieri
Espressione usata per consolare chi tossisce.
Sappitù chiestao
Espressione tipicamente pratese, “Sappitù chiestao” è una frase idiomatica che racchiude in poche parole un concetto di incertezza e rassegnazione di fronte a un evento di cui non si conosce l’autore.
La parola sappitù è una contrazione dialettale che richiama l’idea di una conoscenza impossibile da ottenere: non è un semplice “tu lo sai?”, ma un modo di dire che sottintende che nessuno può davvero sapere chi sia il responsabile di un fatto. È un’interrogazione retorica, una sorta di sospensione dell’indagine, come a dire “Ma figurati se si può sapere!”.
Il termine chiestao è invece la forma contratta di “chi è stato”, che si incastra perfettamente nel tono ironico e disincantato dell’espressione. Non si tratta di una vera domanda volta a scoprire la verità, bensì di un’affermazione camuffata da interrogativo, che sottolinea come l’identità del colpevole resterà ignota.
Si usa tipicamente quando accade qualcosa di inspiegabile o quando si verifica un piccolo disastro di cui nessuno si assume la responsabilità:
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Una sedia rotta in un bar senza che nessuno confessi? “Sappitù chiestao!”
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Un graffio sulla macchina lasciata in parcheggio? “Sappitù chiestao!”
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Un bicchiere sparito in un locale? “Sappitù chiestao!”
Il tono con cui viene pronunciata la frase è fondamentale: può essere sarcastico, rassegnato o semplicemente per chiudere il discorso senza perdere tempo in inutili ricerche. Un detto che incarna perfettamente il pragmatismo toscano e in particolare quello pratese, sempre pronto a mescolare ironia e realtà nel modo più schietto possibile.
Se un gli sta attento e dura quanto un gatto sull’Aurelia
Questo detto richiama l’importanza di essere attenti e prudenti nelle nostre azioni e decisioni, non solo in campo lavorativo e finanziario, ma anche nella vita di tutti i giorni. Fa analogia al comportamento rischioso dei gatti che, avventurandosi in modo imprudente vicino alla strada, come l’Aurelia, rischiano di essere investiti da un’automobile e quindi di durare poco. Allo stesso modo una persona che prende decisioni avventate rischia di durare poco nell’attività che intraprende, analogamente a quanto accade al gatto sull’Aurelia. In sostanza, il detto mette in guardia contro le conseguenze di comportamenti negligenti o sconsiderati, sottolineando l’importanza di essere prudenti e attenti nelle nostre azioni per evitare rischi e conseguenze negative, sia nella vita personale che in quella professionale.
Se un’è zuppa, gl’è pan bagnato
Espressione tipicamente toscana, “Se un’è zuppa, gl’è pan bagnato” è un modo ironico e sornione per dire che due cose che sembrano diverse, in realtà, sono praticamente la stessa cosa. Cambia il nome, ma la sostanza rimane identica.
Il detto si basa su una contrapposizione solo apparente tra zuppa e pan bagnato, due concetti che, a ben vedere, coincidono perfettamente: la zuppa, nelle sue forme più rustiche e tradizionali, è infatti composta da pane ammollato in brodo o in qualche altro liquido, proprio come il pan bagnato. Da qui nasce l’ironia dell’espressione, usata per sottolineare che una differenza esiste solo in apparenza, mentre nella sostanza non cambia proprio nulla.
La costruzione della frase, con l’uso di “un’è” (non è) e “gl’è” (è), rafforza il tono popolare e immediato del detto. È un modo di dire semplice ma efficace, che colpisce per la sua concretezza e per quel tipico realismo toscano che guarda ai fatti e non alle apparenze.
Questo proverbio viene spesso impiegato per evidenziare che due scelte, due situazioni o due versioni di un fatto, per quanto presentate come diverse, sono sostanzialmente uguali. È perfetto per quei momenti in cui qualcuno cerca di convincerti che “questa volta è diverso”, ma tu — con un mezzo sorriso — sai benissimo che è sempre la solita storia.
Qualche esempio? Se due candidati politici si presentano come opposti ma in fondo propongono le stesse cose, allora… “Se un’è zuppa, gl’è pan bagnato!”. Se ti propongono due soluzioni a un problema, ma entrambe portano allo stesso punto, oppure se ti raccontano due versioni diverse di un fatto che in realtà si equivalgono, la risposta è sempre quella: “Ma che cambia? Se un’è zuppa, gl’è pan bagnato!”
Questo detto toscano incarna alla perfezione la saggezza popolare intrisa di ironia, concretezza e un pizzico di disincanto. Perché, in fin dei conti, il toscano lo sa bene: spesso dietro il cambiamento apparente non c’è niente di nuovo. E allora, tanto vale dirlo chiaro e tondo… se un’è zuppa, gl’è pan bagnato!
Se un ci si rivede speriamo sia per colpa tua
Il detto tipicamente pratese “Se un ci si rivede, speriamo sia per colpa tua” è una perla di umorismo toscano, schietto e vagamente cinico, perfetto per sdrammatizzare il momento del saluto tra due persone. A prima vista può sembrare ambiguo, ma il tono con cui viene pronunciato è tutto: ironico, affettuoso, con una punta di sarcasmo bonario. “Se un ci si rivede” vuol dire semplicemente “se non ci rivediamo più”, e fin qui sembrerebbe una frase malinconica.
Ma la seconda parte, “speriamo sia per colpa tua”, ribalta tutto: è come dire “meglio che succeda a te che a me”, ovviamente con il sorriso. È un’espressione leggera, che però – come tanti detti toscani – nasconde un fondo di verità e di riflessione esistenziale. In certi casi può voler dire anche: “Se non ci si rivede più… speriamo che almeno la disgrazia sia toccata a te”, lasciando intendere che tra le varie ipotesi ci sia anche quella più estrema: che uno dei due, nel frattempo, abbia tirato le cuoia. Ma sempre detto col tono giusto, come solo i pratesi sanno fare: con quella capacità tutta toscana di scherzare su tutto, anche sulle cose che fanno un po’ paura.
È una frase da usare tra amici, tra persone con cui c’è confidenza, magari alla fine di una cena, o quando ci si saluta sapendo che non ci si rivedrà tanto presto. È un modo per alleggerire l’addio, farci una risata sopra e mascherare la malinconia dietro un’uscita brillante e pungente.
Esempi di utilizzo:
– Stai salutando un vecchio amico con cui non sai quando ti rivedrai?
“Oh, se un ci si rivede, speriamo sia per colpa tua!”
– Alla fine di una rimpatriata, prima di uscire con una battuta tagliente?
“Se un ci si rivede, speriamo sia per colpa tua… ma io sto bene, eh!”
– Vuoi chiudere una conversazione con quel tono da toscanaccio verace?
“Dai, via… se un ci si rivede… ecco, sappilo, io un c’entro nulla!”
Si sta di nulla in fattoria
Il detto viene utilizzato per indicare quei giovani che vivono ancora in famiglia, in paese o città, e che vengono trattati in modo tale che non gli manchi mai niente e non si vedano coinvolti nelle faccende domestiche. Questa espressione fa riferimento all’idea che la vita in campagna o in una fattoria sia tranquilla e priva di preoccupazioni. Pertanto, quando si dice a qualcuno: “si sta di nulla in fattoria”, si sottolinea che questa persona gode di una vita tranquilla e senza preoccupazioni, poiché tutte le fatiche e le responsabilità sono svolte da altri, permettendogli così di vivere comodamente.
Si stea meglio quando si stea peggio
Il detto toscano “Si stea meglio quando si stea peggio” è un’espressione ironica e paradossale che racchiude tutta la saggezza popolare e la sottile vena sarcastica tipica della Toscana, in particolare dell’area pratese. Letteralmente significa “si stava meglio quando si stava peggio” e gioca su un apparente controsenso: com’è possibile che un tempo, quando le condizioni erano oggettivamente più dure, si vivesse meglio? Il cuore del detto sta proprio in questa contraddizione, che diventa spunto per una riflessione pungente sulla società attuale.
In Toscana, questa frase ha un sottofondo storico ben preciso: con “quando si stea peggio” ci si riferisce spesso, neanche troppo velatamente, al periodo del ventennio fascista. Un’epoca in cui le difficoltà erano reali e profonde – con la repressione politica, il confino, la censura e la privazione della libertà – ma che talvolta viene rievocata da alcuni con nostalgia per via di certe cose che “funzionavano”. È proprio in risposta a queste nostalgie mal riposte che il detto si carica di sarcasmo: è una critica velata (ma nemmeno troppo) a chi rimpiange un passato autoritario solo perché oggi il presente appare caotico o incerto.
L’espressione viene quindi pronunciata con tono ironico e disilluso per sottolineare come, nonostante i presunti progressi, ci saranno sempre delle cose che non funzionano come dovrebbero. Spesso, anzi, alcune di queste funzionano a discapito di valori fondamentali come la libertà, il diritto di parola o la democrazia. È proprio in questo paradosso che si inserisce il detto: viene usato in modo sarcastico per ricordare che, sì, magari certe cose “andavano meglio” durante il ventennio fascista, ma a quale prezzo? A quello della cosa più sacra: la libertà. E allora oggi, anche quando qualcosa non va, la si prende con filosofia, si alza le spalle e si dice “Si stea meglio quando si stea peggio”, non certo per rimpiangere il passato, ma per affermare – con tutta l’ironia toscana – che preferiamo mille volte le difficoltà della libertà alle comodità imposte da un regime. Perché, anche se certe cose oggi non funzionano, abbiamo almeno la possibilità di criticarle, sperando che migliorino, in un contesto di democrazia e libertà conquistata.
Siamo alle porte co’ sassi
È un detto toscano che richiama l’urgenza o il poco tempo rimasto per compiere un’azione, affondando le sue radici nella storia e nella cultura medievale e rinascimentale. Le sue origini e significati sono molteplici, ciascuno legato a un particolare contesto storico e sociale.
1. L’urgenza di rientrare in città
Nella Firenze medievale, le porte delle mura cittadine venivano aperte e chiuse ogni giorno secondo un rigido orario. L’apertura avveniva un’ora dopo l’Ave Maria dell’Aurora, mentre la chiusura era fissata a mezzanotte. Questo compito spettava ai Tavolaccini, funzionari di Palazzo Vecchio, sotto la supervisione del Guardaroba Maggiore, una figura di spicco nell’amministrazione cittadina.
Quando si avvicinava l’orario di chiusura, chi era ancora fuori dalle mura doveva affrettarsi per non rimanere bloccato all’esterno. Spesso, i ritardatari lanciavano pietre contro le porte già in fase di chiusura per avvertire le guardie, sperando nella loro comprensione. Questo gesto di urgenza è probabilmente all’origine del detto.
2. La chiusura protettiva delle porte
Un’altra versione racconta che dopo aver chiuso le porte cittadine, queste venivano rinforzate con grosse pietre per aumentarne la sicurezza durante la notte. Le guardie avrebbero gridato “siamo alle porte co’ sassi” per avvisare i cittadini che era l’ultimo momento utile per entrare o uscire dalla città.
3. La difesa durante gli assedi
In situazioni di assedio, quando le armi come frecce e lance si esaurivano, i fiorentini utilizzavano ciottoli e sassi per difendere le mura. Questo ricorso ai sassi come ultima risorsa simboleggia la fine delle opzioni disponibili, richiamando l’idea che il tempo stia per scadere o che si sia giunti al limite delle possibilità, simile a dire “siamo alla frutta”.
4. Il ghetto degli ebrei e la chiusura delle porte
Un’ultima interpretazione affonda le sue radici nel 1555, quando Papa Paolo IV Carafa emanò la bolla pontificia Cum Nimis Absurdum. Questo documento obbligava gli ebrei a vivere in ghetti separati e murati all’interno delle città. A Firenze, le porte del ghetto venivano aperte al mattino, in concomitanza con l’apertura dei mercati, e richiuse la sera alla loro chiusura.
Gli ebrei autorizzati a uscire per affari dovevano rispettare rigidi orari, e chi ritardava rischiava di perdere l’occasione di uscire o rientrare, restando prigioniero per l’intera giornata. In questi casi, era consuetudine lanciare pietre contro le porte per attirare l’attenzione delle guardie. Il gesto era spesso accompagnato da grida come “È l’è un giudeo!”, indicando che si trattava di una persona autorizzata.
La storia del ghetto degli ebrei rappresenta un esempio di discriminazione sistematica e si lega al detto come metafora dell’urgenza e della tensione che caratterizzava la vita quotidiana di una comunità oppressa.
Una finestra sulla storia
Il detto “siamo alle porte co’ sassi” conserva così le tracce di una società scandita da orari e regole, dalle necessità della difesa cittadina alle ingiustizie sociali. Oggi, continua a evocare l’idea di un momento critico in cui il tempo è prezioso, rendendo vive le memorie di un passato ricco di storie e significati.
Spaccare il c**o ai passeri
Questo detto viene utilizzato in diversi contesti per esprimere un apprezzamento nei confronti di qualcuno o qualcosa che si distingue per le proprie capacità eccezionali o per il suo straordinario valore. “Spaccare il c**o ai passeri” indica quindi la presenza di grandi capacità o qualità distintive, e può essere applicato in vari contesti. Ad esempio, durante una conversazione con qualcuno che sta affrontando difficoltà nel completare un percorso formativo, si può utilizzare per esortarlo a perseverare e a portare a termine gli studi, poiché una volta ottenuti i relativi riconoscimenti accademici, si apriranno molte opportunità lavorative e quindi questa persona potrà “spaccare il c**o ai passeri”. Si può dire che una persona ha degli occhi che “spaccano il c**o ai passeri”, indicando uno sguardo penetrante e profondo. Inoltre, il detto può essere usato per descrivere qualcosa o qualcuno di notevolmente eccezionale o straordinario, come una canzone che “spacca il c**o ai passeri” per la sua bellezza e il suo impatto emotivo. In generale, l’espressione “spaccare il c**o ai passeri” si riferisce a un’elevata efficacia, precisione o qualità positiva di una persona, un oggetto o un’azione.
Stai attento! Un tullo vedi e par sull’ova
Questo detto viene utilizzato per esprimere preoccupazione per una persona che sembra muoversi con difficoltà, come se stesse camminando sulle uova, suggerendo una sensazione di incertezza e maldestrezza nel suo movimento. Quando si avverte un interlocutore terzo di prestare attenzione a qualcuno che sembra muoversi goffamente o in modo insicuro, si usa questa espressione per indicare che il soggetto appare impacciato e vulnerabile, come se fosse in procinto di cadere o di compiere un passo sbagliato. In sostanza, il detto mette in evidenza la fragilità e l’insicurezza del soggetto, invitando a prestare attenzione alla sua condizione precaria o al suo comportamento maldestro.
Stai attento! Un tullo vedi gl’è come un bicchiere sull’acquaio
Questo detto viene utilizzato per esprimere preoccupazione per una persona che sembra essere in una situazione precaria, simile a un bicchiere posto in modo instabile sull’acquaio di una cucina. Così come il bicchiere rischia di cadere a terra con il minimo movimento o urto, così il soggetto in questione sembra essere vulnerabile e suscettibile di incorrere in un incidente o una caduta. In sostanza, il detto mette in evidenza la fragilità o l’insicurezza del soggetto, invitando a prestare attenzione alla sua condizione precaria per evitare che si verifichi un evento indesiderato.
Stare ai resti
Far scegliere prima gli altri e contentarsi di quello che rimane. “Scegliete, scegliete le paste che vu volete. Per me un c’è problema! Sto a’ resti!”
(da Giacomo Bigagli)
Stare in panciolle
L’espressione toscana “stare in panciolle” è un modo di dire figurato e colorito che indica uno stato di totale e beata oziosità, un vivere senza preoccupazioni o sforzi, spesso circondati da ogni tipo di comfort. Richiama l’immagine di una persona rilassata, distesa, che si abbandona all’inattività, mentre magari intorno a lei altri si affannano nelle loro attività.
Un esempio quotidiano
Questa espressione viene spesso usata in tono scherzoso per apostrofare chi, in una situazione di impegno collettivo, se ne sta comodamente a non far nulla. Un esempio tipico potrebbe essere:
“Babbo, dov’è il mio fratello?”
“Lascia perdere! Siamo qui tutti indaffarati e lui se ne sta sul divano in panciolle.”
Origini dell’espressione
Il termine “panciolle” deriva dalla parola “pancia”, simbolo di soddisfazione e relax, con una sfumatura scherzosa data dalla terminazione “-olle”, tipica di alcuni toponimi toscani (come Bracciolle o Marignolle). L’espressione evoca l’immagine di una persona “a pancia all’aria,” metafora di un dolce ozio. Il detto trae origine dal leggendario “paese di Panciolle,” un luogo immaginario in cui gli abitanti vivevano nell’ozio più assoluto, dedicandosi solo a mangiare smisuratamente e a rilassarsi, senza alcuna necessità di lavorare. Il nome del paese deriva da una combinazione di “pancia” e “satollo”, rafforzando l’idea di sazietà e inattività.
Uso e riferimenti letterari
Come riportato dall’Enciclopedia Treccani, l’espressione “stare in panciolle” significa “stare a pancia all’aria,” ovvero in uno stato di completo relax e inattività. È utilizzata per descrivere, con ironia, chi si concede un totale riposo mentre gli altri sono operosi. Un esempio letterario si trova in Aldo Palazzeschi, che descrive un personaggio “in panciolle e raggiante di felicità,” rafforzando l’idea di una condizione di dolce inazione e spensieratezza.
Si fa sabato e sera! (oppure: Si fa sera e saboto!)
Questo detto ha origini legate alle usanze del passato, quando i fidanzati si incontravano nei giorni pari della settimana, tra cui il sabato, oltre alla domenica. Quando c’era una disputa o un litigio e si minacciava di interrompere la relazione, si dava spesso un ultimatum, fissando il sabato come termine ultimo. L’espressione “si fa sabato e sera” indicava proprio questo limite temporale, poiché il sabato sera rappresentava la fine della settimana lavorativa e, simbolicamente, l’ultima opportunità per risolvere la situazione o prendere una decisione. Ai giorni nostri il detto viene utilizzato con la motivazione di porre un ultimatum o un’autorità su qualcuno o qualcosa. Il sabato sera rappresenta il termine ultimo per prendere una decisione, altrimenti si considera che l’opportunità sia persa o che la situazione sia definitivamente risolta. In altre parole, è come se si mettesse un limite temporale entro cui prendere una decisione o agire, sfruttando il simbolismo del termine della settimana lavorativa.
T
Tanto gl’è risaputo che i figliol de’ gatti gl’acchiappano i topi
Detto toscano che, con ironia, sottolinea come i figli tendano a seguire l’esempio dei genitori, proprio come i micini imparano dalla mamma gatta a cacciare i topi.
I bambini, infatti, assorbono ciò che vedono e ascoltano: se il babbo impreca, il figliolo farà lo stesso; se la mamma insegna a darsi da fare, i figli impareranno il valore del lavoro. Questo detto, tipico della saggezza contadina, ricorda che l’educazione è fondamentale, perché ciò che semini, raccogli.
Ma, in perfetto stile toscano, c’è sempre un tocco di ironia: se i figli hanno qualche difetto o vizietto, un po’ la responsabilità ricade sui genitori. E allora si dirà: “Eh, ma gl’è risaputo, i figliol de’ gatti gl’acchiappano i topi!”. Perché, alla fine, nessuno sfugge alle proprie radici!
T’ha a fare come i Tizzo, e gl’andò a letto con gli zoccoli e disse: “L’esse finita di spogliassi e rivestissi!”
Questo detto si riferisce a fatti e personaggi realmente esistiti nel paese di Galciana. Un individuo soprannominato “Tizzo”, nel corso degli anni, iniziò a perdere il senso della ragione e ad adottare comportamenti eccentrici. In particolare, Tizzo riteneva inutile spogliarsi e togliersi gli zoccoli la sera prima di coricarsi, poiché sarebbe stato necessario rivestirsi e rimettersi gli zoccoli il giorno successivo. Pertanto, decise di andare a letto mantenendo gli zoccoli ai piedi. Quando i suoi familiari gli chiesero il motivo di questa scelta insolita, Tizzo rispose con orgoglio e presunzione: “L’esse finita di spogliassi e rivestissi!”, intendendo che era giunto il momento di porre fine all’abitudine di spogliarsi la sera prima di andare a letto in quanto l’indomani ci sarebbe stato da rivestirsi. Così, quando qualcuno in famiglia decide di coricarsi senza spogliarsi, magari solo per riposare per pochi minuti, in modo scherzoso gli viene ricordato il comportamento bizzarro di Tizzo e il detto che descrive la sua singolare azione che lo portava ad andare a letto con gli zoccoli.
T’ha fatto più danno te che i fascisti a Sarzana
I “Fatti di Sarzana”, noti anche come “Strage di Sarzana”, furono una serie di eventi tragici avvenuti nel settembre 1944 durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora, l’espressione “T’ha fatto più danno te che i fascisti a Sarzana” ha mantenuto un legame con la gravità di tali avvenimenti, ma nel corso degli anni è stata reinterpretata in modo più leggero per essere utilizzata anche in situazioni meno gravi e più scherzose. Questo detto viene spesso usato per ironizzare o far notare in modo giocoso quando una persona ha compiuto un’azione che, seppur spiacevole o dannosa, non è paragonabile alla tragedia dei “Fatti di Sarzana”. Può essere applicato quando qualcuno commette un errore di poco conto, come rovesciare del latte sul tappeto o rompere un bicchiere del servito buono di casa, per sottolineare che, sebbene l’evento sia spiacevole, confrontato con le tragedie del mondo, l’incidente in questione ha un impatto molto limitato. In questo modo, il detto assume una connotazione più scherzosa e leggera, pur conservando il riferimento storico alla gravità degli eventi di Sarzana per mettere in prospettiva la situazione attuale.
T’ha fatto più danno te che un ciuo tra i grano
Il detto viene utilizzato nel contesto toscano per rimarcare in modo scherzoso e colorito quando una persona ha compiuto un’azione spiacevole o dannosa, ma il cui impatto è stato relativamente limitato. Si fa uso di un riferimento animale, in particolare al somaro, chiamato in dialetto “ciuo”, con connotazioni umoristiche, per paragonare l’azione dannosa di una persona all’immagine di un somaro lasciato a pascolare in un campo di grano. Questo confronto simbolico sottolinea in modo scherzoso che, sebbene la persona abbia commesso un errore, l’effetto è stato trascurabile rispetto al potenziale danno che potrebbe essere causato da un somaro in un campo di grano.
T’hai più c**o te di cane che abbaiò nell’aia
L’espressione “T’hai più c**o te di cane che abbaia nell’aia” indica che una persona si trova in una situazione di agio e fortuna, simile a quella di un cane che vive nell’aia. In un contesto così protetto, il cane è al sicuro e ben curato dal padrone, ricevendo cibo, riparo e attenzione senza dover affrontare i pericoli esterni. La sua unica responsabilità è quella di abbaiare per avvertire il padrone in caso di pericolo. Quando si dice che una persona ha più fortuna di questo cane, si sottolinea che essa gode di una situazione comoda e senza preoccupazioni, dove le cose sembrano andare sempre per il verso giusto. Questa affermazione viene utilizzata in modo scherzoso per enfatizzare la semplicità della vita di questa persona e la sua posizione invidiabile.
T’hai un c**o te che se tullo metti alla finestra e ti ci viene a covare i piccioni
L’espressione “T’hai un c**o te che se tullo metti alla finestra e ti ci viene a covare i piccioni” è un modo molto colorito per indicare che una persona è estremamente fortunata rispetto alla media. Si fa riferimento alla “fortuna” usando un linguaggio colloquiale e volgare, paragonando la fortuna a “avere un grosso culo”. Questo grosso culo viene descritto in modo esagerato, tanto da suggerire che se lo si mettesse alla finestra, sarebbe abbastanza grande da farci fare il nido ai piccioni. Questa espressione è utilizzata in modo scherzoso e ironico per sottolineare quanto la fortuna di quella persona sia eccezionale e quasi incredibile.
Te tu fai come quello briao fradico che gl’aspettava i su uscio per tornare a casa
Detto toscano che descrive con arguzia e ironia il comportamento di una persona talmente ubriaca da perdere ogni percezione della realtà e del buon senso. L’immagine evocata è quella di un individuo che, invece di rendersi conto che per entrare in casa deve semplicemente raggiungerla, resta fermo sul posto, aspettando come un bischero che la porta di casa “venga” da lui. È come se fosse convinto che l’uscio, con un tocco di magia, si metta in movimento come un autobus e lo raggiunga per farlo entrare senza che lui debba fare un passo.
Questa situazione, volutamente paradossale e grottesca, ben rappresenta lo spirito toscano, che ama scherzare sugli atteggiamenti bizzarri e un po’ strampalati delle persone, specie quando, per distrazione o per mancanza di buon senso, si comportano in modi difficili da spiegare.
Del resto, in Toscana, si sa, si tende a dipingere con ironia i comportamenti più eccentrici, enfatizzandone il lato comico: qui il “briao fradico” diventa il simbolo di chi si perde in un bicchier d’acqua, o meglio, in un bicchiere di vino! E così, mentre il mondo intero capisce che per entrare in casa basta andarci, lui aspetta con calma, magari pensando: “E che c’è da correre? Tanto prima o poi passerà!”. Un esempio perfetto di come la saggezza popolare toscana sappia farci sorridere anche delle situazioni più assurde.
Te tu fai la fine di prete di Marcialla, e morì senz’assaggialla
Questo detto viene utilizzato in modo scherzoso nei confronti di quei ragazzi che, per varie ragioni, non si dedicano molto alla ricerca di una compagna con cui condividere la propria vita e i propri desideri. L’aneddoto riguardante il prete di Marcialla, che visse tutta la vita senza provare l’esperienza dell’amore fisico, viene utilizzato come monito ironico. Marcialla potrebbe essere scelta per la rima con la parola dialettale “assaggialla”, che significa “assaggiarla”. Questo detto serve da esortazione scherzosa affinché il ragazzo in questione si impegni nella ricerca di una compagna e provi le gioie della vita di coppia. Inoltre, si fa riferimento al paradosso che molti preti, nonostante il loro giuramento di castità, possano cadere in tentazione e trasgredire tale voto, mentre il prete di Marcialla sembra essere stato uno dei pochi ad aver mantenuto fede al proprio impegno di castità. Questo aggiunge un ulteriore livello di ironia al detto, poiché, mentre si esorta il ragazzo a cercare una compagna, si ricorda anche sarcasticamente il prete di Marcialla come un esempio insolito di fedeltà al giuramento di castità. In sostanza, il detto vuole motivare in modo giocoso la persona a cui è rivolto a cercare l’amore e sperimentare le gioie della vita sentimentale, ricordando l’esempio del prete di Marcialla che, al contrario, ha rinunciato a tali piaceri, contraddicendo implicitamente il comportamento disonesto di molti altri preti.
Te tu manderesti a fondo una nave di sughero
Questo detto è utilizzato in modo scherzoso e ironico per indicare che una persona non è in grado di svolgere un compito o un’azione in modo efficace, creando confusione o commettendo errori anche nelle situazioni più semplici. Il paradosso risiede nel fatto che una nave di sughero non può affondare, avendo un peso specifico inferiore a quello dell’acqua. Quindi, quando si dice a qualcuno che sarebbe capace di mandare a fondo una nave di sughero, si intende sottolineare in modo divertente che quella persona è così inepta o maldestra da fallire anche nelle imprese più semplici o impossibili. In sostanza, il detto vuole evidenziare in modo ironico le incapacità o le goffaggini di chi lo riceve, utilizzando un’espressione paradossale per enfatizzare il concetto con un tocco di umorismo.
Te t’hai cervello quanto una mensola
L’espressione “Te t’hai cervello quanto una mensola” è un modo colloquiale per indicare che una persona dimostra poco acume e capacità nel prendere decisioni o compiere azioni corrette. La sua intelligenza viene paragonata a quella di una mensola di legno, che per sua natura non ha alcuna intelligenza. Questo confronto assurdo serve a sottolineare in modo scherzoso, seppur con una nota di cattiveria e verità, la mancanza di acutezza e lungimiranza della persona in questione. La frase evidenzia l’inadeguatezza intellettuale o la mancanza di perspicacia nel modo in cui la persona affronta determinate situazioni.
Te tu hai a fare come i can di Bettolo: “Tutti tromba***o e i suo si leccava la f**a”
L’espressione “Te tu hai a fare come i can di Bettolo: “Tutti tromba***o e i suo si leccava la f**a” è un detto colorito, colloquiale, scherzoso ed ironico utilizzato nei confronti di ragazzi che sembrano non aver capito bene come approcciarsi alla ricerca di una compagna per vivere la vita di coppia. L’espressione fa riferimento a fatti e persone realmente esistiti nel paese di Galciana, in particolare al personaggio soprannominato “Bettolo”, il cui cane, a differenza degli altri, preferiva rimanere da solo nell’aia a leccarsi le parti intime anziché cercare altre femmine per accoppiarsi. Questo comportamento atipico, dato l’istinto naturale degli animali, veniva considerato strano. Quindi, quando un ragazzo, invece di unirsi al gruppo degli amici per socializzare e conoscere ragazze, sembra preferire stare da solo o fare altro, viene ironicamente paragonato al cane di Bettolo, con l’esortazione implicita a cercare una ragazza per sperimentare i piaceri della vita di coppia. Va sottolineato che l’espressione è stata coniata in un contesto storico e culturale specifico, senza l’intenzione di discriminare o giudicare le inclinazioni sessuali di nessuno, ma piuttosto per scherzare con i ragazzi eterosessuali che mostrano timidezza o ritrosia nel confrontarsi con ragazze.
Te tu mi devi dire chi te l’ha indagato codesto sonaglielo
L’espressione “Te tu mi devi dire chi te l’ha indagato codesto sonaglielo” è utilizzata in modo scherzoso per riferirsi a persone che hanno deciso di suonare uno strumento musicale che produce un rumore considerevole. Nel contesto specifico descritto, questo detto è stato utilizzato da una nonna a Galciana in tono scherzoso ed ironico nei confronti del nipote che aveva deciso di comprare una batteria e imparare a suonarla. La batteria, essendo uno strumento che non emette note singole ma produce un insieme di suoni ritmici, può non ricevere grande approvazione o attenzione dalle persone che non sono abituate a quel tipo di musica. La nonna, con l’espressione “chi te l’ha indagato codesto sonaglielo”, scherzosamente chiede al nipote chi sia stata la persona che abbia suggerito o ispirato l’idea di iniziare a suonare la batteria. L’uso del termine “indagato” suggerisce un certo grado di perplessità o stupore riguardo alla scelta del nipote di suonare uno strumento così rumoroso e che da solo non può suonare una melodia completa come una fisarmonica, uno strumento più tradizionale e melodico. La nonna, in modo scherzoso e ironico, potrebbe implicitamente suggerire al nipote di considerare uno strumento più tranquillo e solitamente accettato come la fisarmonica.
Tottero frugiataio
L’espressione pratese “tottero frugiataio” è un modo di dire scherzoso usato per descrivere una persona che non solo ha l’abitudine di brontolare e polemizzare (come un tottero), ma che lo fa in modo particolarmente insistente e ripetitivo, proprio come il richiamo continuo e fastidioso dei frugiatai nei mercati.
Dire a qualcuno che è un “tottero frugiataio” significa quindi sottolineare che il suo modo di lamentarsi o criticare non si limita a poche osservazioni pungenti, ma diventa una sorta di sottofondo costante e fastidioso, proprio come il richiamo continuo del venditore di castagne tra il vociare del mercato.
L’espressione viene spesso usata in tono ironico o bonario, tipica del carattere diretto e schietto della tradizione pratese.
Significato e origine di “Tottero”
Il termine “tottero” indica una persona incline a brontolare e polemizzare, che fatica a trattenersi dall’esprimere la propria opinione, spesso in modo critico e poco accomodante. Il tottero ha l’abitudine di commentare ogni cosa, anche quando non richiesto, con un atteggiamento persistente e spesso irritante. L’origine del termine è incerta, ma richiama il suono tipico di chi borbotta senza sosta, creando un effetto simile a un ronzio continuo e fastidioso.
Significato e origine di “Frugiataio”
Il termine “frugiataio” si riferisce a chi si occupa di frugiate, ossia delle castagne arrostite (dette anche bruciate o caldarroste). Il frugiataio era colui che, in passato, preparava e vendeva castagne arrostite per strada, spesso in contesti popolari e chiassosi. Per attirare i clienti, era solito ripetere in continuazione frasi d’invito all’assaggio delle sue prelibate castagne. Questo parlare incessante, immerso nel frastuono del mercato, finiva spesso per sembrare un ronzio insistente e persistente, con parole che si confondevano nella confusione del posto, risultando quasi indistinguibili.
Troppa grazia Sant’Antonio
Il detto paesano “Troppa grazia, Sant’Antonio!” ha le sue radici nella storia di Antonino Pierozzi, noto come Antonino da Firenze. La sua saggezza e prudenza gli valsero il soprannome di Antonino dei Consigli, e nel XV secolo divenne Arcivescovo di Firenze. La leggenda narra che la gente si rivolgeva a Sant’Antonino per chiedere aiuto spirituale.
Un episodio famoso riguarda una giovane coppia che non riusciva ad avere figli. Dopo aver chiesto la grazie a Sant’Antonino, la coppia ebbe finalmente un figlio.
Tuttavia, le benedizioni non si fermarono lì: alla fine, la coppia ebbe sei figli. La sorpresa e l’esagerazione di questa abbondanza, che superava di gran lunga
le aspettative della coppia, hanno dato origine all’espressione “Troppa grazia, Sant’Antonio!” per indicare una situazione in cui si riceve molto più di quanto ci si aspettasse o di quanto si ritenesse necessario. Questo detto è utilizzato per esprimere stupore di fronte a una generosità così grande da diventare quasi opprimente
Tu costi più te che i Serchio ai lucchesi
Il detto toscano “Tu costi più te che i Serchio ai lucchesi” è una frecciata giocosa utilizzata spesso a Prato e nelle zone vicine per scherzare sul tenore di vita di una persona o sul suo gusto per lo spreco. Spesso lanciato dai nonni ai nipoti o tra amici in tono leggero, questo detto fa notare in modo spiritoso che avere a che fare con questa persona può comportare un costo non indifferente, paragonabile all’onere che il fiume Serchio ha rappresentato per gli abitanti di Lucca nel corso dei secoli. Il Serchio, con le sue inondazioni e le spese per la sua regolazione, ha pesato sulle tasche dei lucchesi, e così si scherza sul fatto che interagire con questa persona possa risultare altrettanto costoso. In sostanza, si vuole far capire in modo divertente che mantenere o condividere esperienze con questa persona può essere equiparato a gestire le spese derivanti dal fiume Serchio, ma ovviamente in senso figurato e con un pizzico di ironia.
Tu costi più te che un figliolo prete
Questo detto toscano viene utilizzato in modo scherzoso per evidenziare il costo o l’onere finanziario che una persona può rappresentare per la propria famiglia o per coloro che gli stanno intorno. Si fa riferimento al passato, quando le famiglie dovevano sostenere spese considerevoli per l’istruzione e la formazione di un figlio destinato alla vita religiosa come prete. In quel contesto storico, formare un figlio e farlo diventare prete richiedeva notevoli risorse economiche e sacrifici da parte della famiglia. Quindi, utilizzare questo detto significa ironizzare sul fatto che la persona in questione rappresenta un costo o un impegno finanziario simile a quello di educare e formare un figlio per diventare prete. Pur mantenendo un tono scherzoso, il detto sottolinea l’idea che la persona coinvolta possa richiedere una notevole spesa o impegno finanziario per coloro che gli sono vicini.
Tu fai come i ciuo di Bessi (detto seghine), che su i ghiaino rinforzava
Questo detto, tipico del paese di Galciana, trae origine da una figura locale che era ben conosciuta nel XX secolo: un certo signor Bessi, soprannominato dagli amici “Seghine”. La sua fama risiedeva nel suo asino, chiamato in dialetto “ciuo”, che lo aiutava nel suo lavoro trainando un carretto. Questo asino aveva un comportamento peculiare: quando c’era bisogno di sforzo e velocità, andava piano, ma quando non era necessario, ad esempio su strade di ghiaia dove non occorreva affrettarsi, accelerava, “rinforzando” l’andatura in modo eccessivo. Così, il detto “Tu fai come i ciuo di Bessi (detto seghine), che su i ghiaino rinforzava” viene utilizzato in modo ironico nei confronti di coloro che compiono azioni con un’eccessiva intensità o energia in situazioni dove non è necessario, ma non lo fanno invece quando sarebbe opportuno. In sostanza, si ironizza sul comportamento di chi, come l’asino di Besso, sbaglia nel valutare quando mettere in atto uno sforzo maggiore e quando invece andare piano.
Tu fai come quello che girava intorno alla colonna per metterselo in c**o
Questo detto viene utilizzato in modo ironico e scherzoso per descrivere le azioni di persone che si impegnano in attività impossibili o assurde, pensando di poterle portare a termine nonostante siano intrinsecamente irrealizzabili. L’immagine evocata è quella di qualcuno che inizia a girare intorno a una colonna con l’intento assurdo di riuscire a raggiungere le proprie spalle, un’azione chiaramente impossibile. Così, il detto si riferisce a situazioni in cui le persone insistono in azioni prive di senso, senza rendersi conto della loro futilità o impossibilità di successo.
Tu sei sempre pronto alle scocchette
L’espressione “Tu sei sempre pronto alle scocchette” è una frase utilizzata per riferirsi a persone che sono costantemente pronte a entrare in conflitto o polemica con gli altri, specialmente quando percepiscono un’ingiustizia o una situazione controversa. Il termine “scocchette” nel dialetto pratese significa scontro, confronto, litigio o alterco. Quindi, una persona “pronta alle scocchette” è qualcuno che tende a cercare il conflitto anziché cercare un confronto sereno e cercare di mediare tra posizioni diverse o opposte.
Tu sei sonato come un tamburo
L’espressione “Tu sei sonato come un tamburo” è utilizzata in modo scherzoso e colloquiale per riferirsi a qualcuno che dimostra di non essere particolarmente equilibrato nelle sue scelte, risposte o pensieri su qualsiasi argomento. L’essere “sonati” richiama due concetti: innanzitutto, il concetto del pugile “sonato” dopo un incontro, che non è più lucido e reattivo; inoltre, si fa riferimento al tamburo che viene percosso senza tanti complimenti dal musicista. Pertanto, dire che una persona è “sonata come un tamburo” sottolinea la sua mancanza di capacità nel condurre conversazioni sensate, nel formulare idee condivisibili e nel mantenere un comportamento affidabile e credibile. Tutto ciò viene detto in modo scherzoso, ma con una leggera nota di verità e cattiveria, suggerendo che questa persona sembra essere poco affidabile e poco coerente nelle sue parole e azioni.
Tu sei ignorante fino alla gocciola di Gesù
L’espressione “tu sei ignorante fino alla gocciola di Gesù” è un’espressione colorita e spregiativa utilizzata in toscano per riferirsi a una persona che si comporta in modo fastidioso verso gli altri, spesso attraverso scherzi o spregi poco piacevoli. In toscano, il termine “ignorante” è usato in senso spregiativo per indicare una persona che si diverte a infastidire gli altri con scherzi o comportamenti irritanti. L’aggiunta della frase “fino alla gocciola di Gesù” mutuata dalla tradizione religiosa cattolica conferisce un significato simbolico e accentua l’idea di eccesso nell’ignoranza. La “gocciola di Gesù” rappresenta la parte più pura e sacra del sacrificio di Gesù sulla croce, simboleggiando il suo amore e la sua redenzione per l’umanità. Pertanto, dire a qualcuno che è “ignorante fino alla gocciola di Gesù” implica che il suo comportamento fastidioso raggiunge livelli alti, quasi al limite del tollerabile, richiamando l’attenzione sul suo comportamento inappropriato. In realtà, è importante sottolineare che l’espressione viene utilizzata in tono scherzoso, tenendo conto del significato profondo e sacro attribuito alla “gocciola di Gesù” nella tradizione religiosa cattolica, che rappresenta il massimo sacrificio di amore e redenzione.
Tutte le strade le portano a Roma
E ho da andare in qui posto! Vai, vai! Tutte le strade le portano a Roma.
U
Un tu lo vedi e va par che torni
È un’espressione colloquiale utilizzata per indicare il comportamento di una persona che si appresta a compiere un’azione importante, come un’accelerazione decisiva in uno sport, il lancio rapido di una rete da pesca o il tentativo di prendere un treno importante, ma che sembra non impegnarsi pienamente o comportarsi come se l’azione fosse già stata compiuta con successo. In sostanza, la persona non mette l’impegno dovuto per portare a termine correttamente l’azione in questione, ma sembra dare l’impressione di aver già raggiunto il risultato desiderato. La frase enfatizza il contrasto tra l’importanza dell’azione da compiere e l’apparente mancanza di impegno o determinazione da parte della persona coinvolta. Questo detto assume un significato particolare perché, generalmente, quando ci si appresta a compiere un’azione importante, si cammina con passo deciso, veloce e fluido, mentre al ritorno, dopo aver compiuto l’azione, il passo è più fiacco, tranquillo, quasi da passeggiata, proprio perché si è già compiuta l’azione e si è sulla strada del ritorno. Pertanto, l’utilizzo di questa espressione contesta il modo in cui la persona si sta muovendo, suggerendo che difficilmente raggiungerà il risultato desiderato se procede in quel modo, senza mostrare grinta o determinazione.
Un tu t’alzi? no! Icche vo a fare il pane alle mosche? (I che mi levo a fare? A fare i pane alle mosche?)
Questo detto viene utilizzato in modo colloquiale per esortare una persona ad alzarsi dal letto, mentre la persona in questione, che potrebbe essere un po’ giù di umore o scoraggiata, risponde che non ha voglia di alzarsi perché non avendo nulla da fare andrebbe solo a fare da appoggio per le mosche, proprio come fanno le mosche con il pane. La risposta riflette la sensazione di inutilità o mancanza di scopo che la persona prova al momento, e quindi preferisce rimanere a letto anziché alzarsi.
V
Z